About Z.

Meno si sa, meglio è.

Eccesso di risposte in difetto di domande.

Il conforto dentro al sonno. Il conforto dentro a un sogno.

Bisogna attraversali con compostezza mentre si dorme. Guardarsi bene in giro. Interagire il giusto, senza emozionarsi troppo, pena il risveglio surrenalico.

Da svegli due compiti difficili:

-Il primo ripercorrerli per fissarli nei ricordi, per poi appuntarseli per evitare di dimenticarli. Dal breve al medio termine, e poi al potenzialmente lungo termine offerto da carta o bits di dati.

-Il secondo compito è capirli, o provarci. Ripensare ai fatti occorsi nei giorni precedenti, ai pensieri fatti, o a situazioni in sospeso. Il contesto, lo sfondo, il rumore di fondo. Con queste chiavi di lettura bisogna provare a costruire uno scheletro di significati da coprire con i significanti onirici, senza pretesa alcuna di azzeccarci.

Una bella villa signorile nel tipo di contesto che tanti signori supponenti liquiderebbero con la definizione di “esterno notte”. Un giardino sufficientemente grande, tranquillamente adibibile a ricevimenti (matrimoni, battesimi).

Dei grossi teloni simili a lenzuola sospesi in orizzontale. Dei lettini da giardino sotto di essi, come sdraio da mare ma con dei cuscini di pelle fusi allo scheletro di alluminio. Una reintepretazione moderna di letti a baldacchino.

La persona che è con me, una signora sulla sessantina, in ampio sovrappeso, mi spiega che si tratta di sognatoi, luoghi dove la gente può venire a sognare, fortemente sostenuta dal tipo di atmosfera.

-La stagione non è quella giusta secondo me per fare questo tipo di attività all’aperto. Non fa freddo freddo, ma neanche caldo.

-Da una parte è vero, ma in realtà…

-In realtà ha ragione anche lei. Le giornate si sono allungate, ci sta un sacco di luce in più. È il momento dell’anno giusto per diventare pazzi, il momento in cui il cervello può accelerare.

-In realtà… sì.

In realtà il cazzo. Il freddo rischia di produrre un carico adrenergico eccessivo. La polemica però va tenuta al guinzaglio.

-Questi che vengono qui a sognare, questi signori, perché lo farebbero?

-Per trovare delle risposte a domande complesse.

-E dove le troverebbero?

-Nei sogni.

-Nel senso che la risposta è già dentro di loro?

-In realtà sì.

-Non potrebbero andare dallo psichiatra?

-In realtà ora come ora, per fortuna, la psichiatria sta passando di moda.

-Sta passando di moda? Ma se si parla solo di quello?

-Sì, però in realtà sta comunque passando.

-Il modo migliore per affossare un tema è affrontarlo con estrema superficialità, saturare il campo di coscienza delle persone facendole sentire padrone dello stesso e poi… lasciare che la noia uccida la moda. Nel frattempo sarà pronta un’altra puttanata.

-In realtà sì.

-Quindi queste persone vengono qui a sognare per trovare delle risposte?

-Sì.

-E poi le trovano?

-In realtà non lo so. Bisognerebbe chiederglielo.

Il posto in cui mi trovo mi è familiare. Ci sono già stato ad un matrimonio anni fa. Quindi familiare sì, ma fino ad un certo punto. Sono passati degli anni, e questa volta, a differenza della scorsa, non ci sta nessun antipasto di pesce, e questa situazione per me è inaccettabile.

-Ma gli antipasti di pesce dove sono?

-No quelli in realtà non ci sono.

-Perché?

-In realtà non sono compresi nel servizio.

-Potrebbe, per grazia del signore, evitare questo intercalare?

-Quale?

-In realtà.

-Eh… mmm… in realtà no.

-Lo accetterò, per quanto sia poco accettabile.

-In realtà bisognerebbe provare il più possibile ad accettare gli altri, anche nei loro difetti.

-Ah, questo è sicuramente vero. Ma in ragione del tipo di sangue che ho, non è sempre possibile. Tollero male le complicazioni, e quando prendo velocità mi scoccia parecchio frenare.

-In realtà potrebbe avere un disturbo dell’attenzione e di conseguenza un eccesso di sveltezza.

-Quando sono fermo sono un sasso morto in un mare immobile. Al momento giusto però ho la reattività di un insetto che non vuole crepare.

-Questo va bene, lo capisco. Però ci starebbe un’altra cosa da fare. Dovrebbe conoscere una persona.

-E chi?

-Una che già conosce.

-Ci starebbe una contraddizione di termini in ciò, no?

-Sostituiamo conoscere con incontrare allora, no?

-In questo caso per me va bene.

Una piscina illuminata. Il tipo di piscina che durante i ricevimenti un minimo formali non ci si aspetta di poter utilizzare, o almeno non quando ci si ritrova al tipo di cerimonia in cui si va insieme ai propri familiari.

-La piscina è utilizzabile?

-In realtà no. E poi non diceva che fa un po’ freddo?

-Ah, sì è vero.

La signora mi chiede:

-Ha già capito perché è qui?

-Capito no, ma penso che sia una questione che riguarda il mio problema principale in questo momento.

-Che sarebbe?

-Non sto di certo a dirlo a lei.

-Mi dispiace.

-Va bene, se le devo dare un dispiacere a questo punto tanto vale dirglielo. Sarò chiaro: il mio problema è l’inaccettabilità del passare del tempo. Proprio non lo sopporto. Non è solo una questione di vecchiaia, sia chiaro. Quella pesa il giusto. Invecchiassi solo io mi passerebbe tutto sommato per il cazzo. Invece invecchiano tutti. E si perdono un sacco di persone. Se ne possono conoscere di nuove, ma non me ne frega quasi nulla. Non coltivo quel tipo di speranza nel prossimo. Le persone che perdiamo, quelle a cui abbiamo voluto bene, quelle in cui abbiamo investito in termini di affetti e significati… il tempo nel suo procedere monodirezionale le inghiotte tutte. Finiscono nei cimiteri quando muoiono, e sono perse per sempre; possono sopravvivere al massimo nei ricordi, ma con limitata reciprocità di rapporto. Poi ci sono quelle che si perdono per naturale deriva, e pure su quello il tempo conta, esercita il suo effetto. Ci si allontana anche solo per motivi geografici, e inerzia e inedia fanno il resto. La separazione prodotta dal tempo produce una perdita di confidenza e di abitudine, tale che il provare poi a riallacciare produce nell’altro una reazione del tipo “ma questo che cazzo vuole”? Si diventa peggio che estranei, poiché del resto nel frattempo, in quello spazio di tempo di reciproco ignoramento si cambia e si diventa persone tutto sommato diverse. Cambia pure il proprio intorno, le proprie relazioni, la cultura contenitrice, gli interessi, insomma tutto.

Del resto Non è possibile tenere tutto insieme, bisogna sempre fare scelte, e le scelte implicano rinunce, e la vita non dura un cazzo. L’alternativa di ripiego sarebbe il riuscire a godersi i momenti, ma siamo sempre presi da qualcosa, da desideri di miglioramento, da desideri di possesso, da desideri di ruolo e di identità. Impegnati a diventare qualcosa, si investe per avere un senso, ma mentre si cerca un senso si perde quel poco che si ha avuto. Un sacco di tempo perso, dietro al materialismo, dietro a infinite forme di intrattenimento ed ipsazione…

-In realtà questa è una visione un po’ pessimistica.

-La sua opinione per me conta il giusto, anche se mi dispiace darle questo ulteriore dispiacere. Andiamo piuttosto dove dobbiamo andare. Abbiamo già perso un sacco di altro tempo.

Una casetta esterna, una sorta di depàndance liminale alla piscina. Ben tenuta. Forse in passato utilizzata per gli ospiti della villa.

D’un tratto mi ricordo del chi si trova ospite in quella casetta. Lo sapevo ma non lo avevo ben contestualizzato. Lo sapevo, ma non mi aspettavo di dovermici trovare in quel momento. La situazione non è ben a fuoco, come del resto è giusto che sia.

Nella casetta ci sta una ragazza che conosco, l’ex fidanzata di un mio vecchio amico.

C’è o ci dovrebbe essere, poiché lei non la trovo ma in compenso ci sta tutta la sua famiglia, molto più larga di quanto mi sarei aspettato.

Più abbienti della mia famiglia d’origine. Borghesi di città borghese. Malgrado ciò presupporrebbe maggior nuclearità familiare, in questa casetta ci sono circa quaranta persone.

-In realtà sembra che ti stessero tutti aspettando.

-Sì, ma… non ricordo il motivo.

-Non è detto che tu lo possa scoprire adesso.

-Gentilmente ora evapora, poi ne riparliamo in un secondo momento.

La signora si svapora.

Nella tasca della giacca ho un foglio di carta che mi hanno lasciato i miei genitori, con segnate sopra le nostre proprietà, sia immobili che appezzamenti di terra. Elencare le proprie proprietà feudali dovrebbe essere un modo per certificare il nostro non essere dei completi morti di fame.

Mi presento a tutti.

Ciascuno ha qualcosa da dirmi, però sono quasi tutte frasi di circostanza.

-Ah, ma quindi sei tu…

-Ci ha parlato tanto di te.

-Come stai?

-Ci ha detto che hai fatto un sacco di cose, cioè, diverse cose diciamo…

-Eravate insieme a Roma, giusto?

-É bello avere degli amici… è bello ritrovarli…

-Ci ha detto che una volta siete stati quasi arrestati, ma anche che non c’entravate niente con quella storia.

-Sicuramente dovete avere delle cose in comune se sei qui…

-Nel frigo ci potrebbe essere dell’aranciata, ma oggi non abbiamo fatto la spesa se non l’essenziale per la cena, quindi è rimasta solo l’aranciata ci dispiace.

Le facce si confondono. Qualcuno è seduto su dei cuscini. Qualcuno è in piedi. Mi danno un sacco di attenzioni che non merito. La mia centralità è frutto solo di quel contesto. Una sua cugina sembra anche interessata, ed ha anche lei ha una faccia familiare, tuttavia ho altro da fare.

Alla fine arriva anche lei, la mia amica, accompagnata dal padre.

Me lo presenta.

Ne segue una discussione in cui esce fuori, pretestuosamente, che conosce il mio attuale capo (in senso lavorativo). Non dò troppo spago alla questione, sento forte la forzatura della narrazione onirica che mi vuole sbattere in un altro posto, lontano centinaia di chilometri. Succede, lo spazio ed il tempo sfumano come un tratto di penna bagnato da comune alcol. Villette a schiera in un paese di mare della Calabria, dove il mio capo, con gli occhi sbarrati e vuoti, dissociato, prova ad ammazzarsi gettandosi in una strada dove però non passa nessuna automobile. Faccio in tempo ad avvicinarmi per salvarlo. Così è facile, non ci vuole niente, basta raggiungerlo a piedi, sono al massimo venti passi. Frasi di circostanza per farlo rinsavire e tornare indietro da una sorta di trance. È sufficiente fare ciò per eliminare la forzatura narrativa sopra citata, e come un elastico che si ritrae, torno nel posto dove mi trovavo (vale a dire la depandancè davanti alla piscina della villa dove persone di un certo sociale vanno per sognare allo scopo di trovare qualche risposta inerentemente ai loro drammi quotidiani).

Il padre della mia amica mi chiede se è tutto ok.

-Sì, per un attimo mi sono mosso avanti… non proprio nel tempo quanto nella narrazione. Credo che il termine corretto sia… catalessi? No, prolessi.

La mia amica fa riferimento al termine anglosassone “flashforward”.

-Sì, sì, esatto. Il contrario del flasbac, l’analessi appunto.

Sempre lei mi chiede direttamente: -Ti ricordi perché dovevi venire qui, giusto?

– No. Sapevo di dover venire, ne ho anche una specie di testimonianza in tasca sotto forma di un documento che avevano preparato i miei genitori per me, ma il motivo non me lo ricordo.

-Non ci vediamo da quasi dieci anni.

-È vero. È questo il motivo? Per rivederci?

-No.

-È troppo tardi?

– No, per fortuna sono ancora viva e direi che sei vivo anche tu.

-Ma quindi, c’è un motivo specifico?

-Sì.

-Non me lo ricordo.

-Se non te lo ricordi è più difficile.

-Non puoi dirmelo tu?

-No.

-Perché?

-Il motivo lo sapevi tu, non io.

-Nel senso che sono stato io a chiederti di vederci?

-Dovevamo vederci, ma il motivo lo sapevi tu.

-Ma quindi, è anche il motivo per cui in generale mi trovo in questa villa?

-Forse… ma è così, una mia idea, magari anche stupida, potresti andare a farti una dormita insieme a quegli altri, sperando di sognare e di trovare in sogno la risposta a questa domanda. Anche se forse non è a questo tipo di domande così insignificanti che bisogna dare una risposta.

-Hai ragione. Una risposta la posso comunque provare a dare, ugualmente, anche se magari sbagliata. Però in un tempo fermo le risposte del presente possono valere anche per il passato.

-Va bene, allora dammela.

-Mi sei mancata. O forse mi manca quel tempo, in cui i problemi stupidi sembravano scogli grandi, ma erano cazzate.

-Vivi in drammi così grossi ora?

-No, non proprio. A parte un certo problema con il tempo, con la nostalgia, con l’ineluttabilità, col concetto di irrecuperabilità, sia totale che semplicemente sostanziale.

-Fammi indovinare… mi stai per dire che ti sei giocato male tutte le tue carte, giusto?

-No, mi limitavo a pensarlo.

-Ci siamo detti tutto?

-Ci siamo detti tutto. Sono stato contento di rivederti, anche se quasi per caso.

-Per caso o quasi. In questo luogo e in questo preciso momento ci sei finito perché volevi finirci. È stata comunque una tua decisione.

-Le idee si sono fatte un po’ più chiare.

Saluto lei. Saluto il padre. Saluto tutti. Torno verso il sognatoio.

La signora di cui prima si ricostituisce condensandosi dall’umidità della campagna.

-In realtà penso fosse importante che tu trovassi almeno una risposta.

-La risposta in effetti già la conoscevo, solo che non la tenevo a portata di mano. Comunque non è stata una illuminazione in senso longitudinale, ma sono nella trasversalità di questa serata così… così… suggestiva in termini di impressioni, e vuota in termini di contenuti.

-Magari però…

-Magari tutti questi personaggi sono stati strumento per fare un monologo, no? Lei inclusa.

-In realtà, sì.

Mi adagio sulla postazione del sognatoio, pronto a vivere questa esperienza.

Tuttavia vengo interrotto molto prima di addormentarmi.

È venuto mio padre a prendermi.

La signora chiede a mio padre perché uno della mia età debba farsi venire a prendere dai genitori.

Mio padre è molto imbarazzato, e biascica qualcosa sul fatto che essendo io molto miope, di sera potrei perdere il controllo della macchina al primo abbagliante affrontato.

Saluto la signora irritato: -È inaccettabile che il valore e la virilità di un uomo vengano messi in discussione in ragione del suo eventuale guidare come un cane.

Mi deride di gusto.

Concludo dicendo:

-Sa che le dico però? In realtà ha ragione lei.

La saluto.

Lasciamo la villa in macchina.

La strada che percorriamo la conosco, anche se non si trova nel posto giusto. Capisco di trovarmici sopra solo per una questione di semplificazione narrativa. Una strada secondaria che unisce il mio paese a quello vicino, e che passa dal cimitero del mio paese. A dire il vero non dovrebbe essere così lunga, e neppure così isolata e dispersa tra le campagne.

Chiedo a mio padre cosa debba farci al cimitero.

Mi risponde in modo a modo suo chiaro. Dovrei capire, la risposta ha senso, per il me stesso di quel preciso istante, ma non saprei replicarla e di fatto non la capisco.

Mi dice anche di non aspettarlo. Mi dice che tornerò con mia madre e con un nostro zio a casa.

Mi intristisco. Penso al peggio. Penso che al cimitero ci debba andare per rimanerci.

Un brutto simbolismo. Poco accettabile. Sento un po’ di acido in bocca.

Queste sono le risposte che vanno trovate nei sogni?

Ammettere di avere paura di perdere le persone a cui vogliamo bene? Tutto qui? Grazie al cazzo.

Nel superamento delle perdite diventiamo davvero adulti.

Bisogna avere abbastanza paura di perdere le persone a cui si vuole bene per riuscire a mettere da parte gli egoismi e dare un valore a quel tempo che ci si passa insieme.

Alla fine torno davvero verso casa con mio padre e questo mio zio, ma torniamo a piedi.

Mi lamento sulla strada del ritorno di quanto queste strade di campagna siano strette e poco illuminate.

Le cose che non tornano sono tante però, a partire dal fatto che malgrado la mia lamentela in realtà pur senza ombra di lampioni la strada sia quasi illuminata a giorno, e continuando col fatto che sono quasi completamente sicuro che il verso della strada sia sbagliato, e che stiamo andando verso un altro paese. Magari hanno parcheggiato là.

Alla fine, come è giusto che sia, mi sveglio poco prima delle tre di notte. Un po’ di angoscia, ma insufficiente all’evitare di riaddormentarmi in qualche minuto.

-Sì, però in realtà sta comunque passando.

-Il modo migliore per affossare un tema è affrontarlo con estrema superficialità, saturare il campo di coscienza delle persone facendole sentire padrone dello stesso e poi… lasciare che la noia uccida la moda. Nel frattempo sarà pronta un’altra puttanata.

-In realtà sì.

-Quindi queste persone vengono qui a sognare per trovare delle risposte?

-Sì.

-E poi le trovano?

-In realtà non lo so. Bisognerebbe chiederglielo.



Il posto in cui mi trovo mi è familiare. Ci sono già stato ad un matrimonio anni fa. Quindi familiare sì, ma fino ad un certo punto. Sono passati degli anni, e questa volta, a differenza della scorsa, non ci sta nessun antipasto di pesce, e questa situazione per me è inaccettabile.



-Ma gli antipasti di pesce dove sono?

-No quelli in realtà non ci sono.

-Perché?

-In realtà non sono compresi nel servizio.

-Potrebbe, per grazia del signore, evitare questo intercalare?

-Quale?

-In realtà.

-Eh… mmm… in realtà no.

-Lo accetterò, per quanto sia poco accettabile.

-In realtà bisognerebbe provare il più possibile ad accettare gli altri, anche nei loro difetti.

-Ah, questo è sicuramente vero. Ma in ragione del tipo di sangue che ho, non è sempre possibile. Tollero male le complicazioni, e quando prendo velocità mi scoccia parecchio frenare.

-In realtà potrebbe avere un disturbo dell’attenzione e di conseguenza un eccesso di sveltezza.

-Quando sono fermo sono un sasso morto in un mare immobile. Al momento giusto però ho la reattività di un insetto che non vuole crepare.

-Questo va bene, lo capisco. Però ci starebbe un’altra cosa da fare. Dovrebbe conoscere una persona.

-E chi?

-Una che già conosce.

-Ci starebbe una contraddizione di termini in ciò, no?

-Sostituiamo conoscere con incontrare allora, no?

-In questo caso per me va bene.



Una piscina illuminata. Il tipo di piscina che durante i ricevimenti un minimo formali non ci si aspetta di poter utilizzare., o almeno non quando ci si ritrova al tipo di cerimonia in cui si va insieme ai propri familiari.



-La piscina è utilizzabile?

-In realtà no. E poi non diceva che fa un po’ freddo?

-Ah, sì è vero.



La signora mi chiede:

-Ha già capito perché è qui?

-Capito no, ma penso che sia una questione che riguarda il mio problema principale in questo momento.

-Che sarebbe?

-Non sto di certo a dirlo a lei.

-Mi dispiace.

-Va bene, se le devo dare un dispiacere a questo punto tanto vale dirglielo. Sarò chiaro: il mio problema è l’inaccettabilità del passare del tempo. Proprio non lo sopporto. Non è solo una questione di vecchiaia, sia chiaro. Quella pesa il giusto. Invecchiassi solo io mi passerebbe tutto sommato per il cazzo. Invece invecchiano tutti. E si perdono un sacco di persone. Se ne possono conoscere di nuove, ma non me ne frega quasi nulla. Non coltivo quel tipo di speranza nel prossimo. Le persone che perdiamo, quelle a cui abbiamo voluto bene, quelle in cui abbiamo investito in termini di affetti e significati… il tempo nel suo procedere monodirezionale le inghiotte tutte. Finiscono nei cimiteri quando muoiono, e sono perse per sempre; possono sopravvivere al massimo nei ricordi, ma con limitata reciprocità di rapporto. Poi ci sono quelle che si perdono per naturale deriva, e pure su quello il tempo conta, esercita il suo effetto. Ci si allontana anche solo per motivi geografici, e inerzia e inedia fanno il resto. La separazione prodotta dal tempo produce una perdita di confidenza e di abitudine, tale che il provare poi a riallacciare produce nell’altro una reazione del tipo “ma questo che cazzo vuole”? Si diventa peggio che estranei, poiché del resto nel frattempo, in quello spazio di tempo di reciproco ignoramento si cambia e si diventa persone tutto sommato diverse. Cambia pure il proprio intorno, le proprie relazioni, la cultura contenitrice, gli interessi, insomma tutto.

Del resto Non è possibile tenere tutto insieme, bisogna sempre fare scelte, e le scelte implicano rinunce, e la vita non dura un cazzo. L’alternativa di ripiego sarebbe il riuscire a godersi i momenti, ma siamo sempre presi da qualcosa, da desideri di miglioramento, da desideri di possesso, da desideri di ruolo e di identità. Impegnati a diventare qualcosa, si investe per avere un senso, ma mentre si cerca un senso si perde quel poco che si ha avuto. Un sacco di tempo perso, dietro al materialismo, dietro a infinite forme di intrattenimento ed ipsazione…

-In realtà questa è una visione un po’ pessimistica.

-La sua opinione per me conta il giusto, anche se mi dispiace darle questo ulteriore dispiacere. Andiamo piuttosto dove dobbiamo andare. Abbiamo già perso un sacco di altro tempo.



Una casetta esterna, una sorta di depàndance liminale alla piscina. Ben tenuta. Forse in passato utilizzata per gli ospiti della villa.

D’un tratto mi ricordo del chi si trova ospite in quella casetta. Lo sapevo ma non lo avevo ben contestualizzato. Lo sapevo, ma non mi aspettavo di dovermici trovare in quel momento. La situazione non è ben a fuoco, come del resto è giusto che sia.

Nella casetta ci sta una ragazza che conosco, l’ex fidanzata di un mio vecchio amico.

C’è o ci dovrebbe essere, poiché lei non la trovo ma in compenso ci sta tutta la sua famiglia, molto più larga di quanto mi sarei aspettato.

Più abbienti della mia famiglia d’origine. Borghesi di città borghese. Malgrado ciò presupporrebbe maggior nuclearità familiare in questa casetta ci sono circa quaranta persone.



-In realtà sembra che ti stessero tutti aspettando.

-Sì, ma… non ricordo il motivo.

-Non è detto che tu lo possa scoprire adesso.

-Gentilmente ora evapora, poi ne riparliamo in un secondo momento.

La signora si svapora.



Nella tasca della giacca ho un foglio di carta che mi hanno lasciato i miei genitori, con segnate sopra le nostre proprietà, sia immobili che appezzamenti di terra. Elencare le proprie proprietà feudali dovrebbe essere un modo per certificare il nostro non essere dei completi morti di fame.



Mi presento a tutti.

Ciascuno ha qualcosa da dirmi, però sono quasi tutte frasi di circostanza.



-Ah, ma quindi sei tu…

-Ci ha parlato tanto di te.

-Come stai?

-Ci ha detto che hai fatto un sacco di cose, cioè, diverse cose diciamo…

-Eravate insieme a Roma, giusto?

-É bello avere degli amici… è bello ritrovarli…

-Ci ha detto che una volta siete stati quasi arrestati, ma anche che non c’entravate niente con quella storia.

-Sicuramente dovete avere delle cose in comune se sei qui…

-Nel frigo ci potrebbe essere dell’aranciata, ma oggi non abbiamo fatto la spesa se non l’essenziale per la cena, quindi è rimasta solo l’aranciata ci dispiace.





Le facce si confondono. Qualcuno è seduto su dei cuscini. Qualcuno è in piedi. Mi danno un sacco di attenzioni che non merito. La mia centralità è frutta solo di quel contesto. Una sua cugina sembra anche interessata, ed ha anche lei ha una faccia familiare, tuttavia ho altro da fare.



Alla fine arriva anche lei, la mia amica, accompagnata dal padre.

Me lo presenta.

Ne segue una discussione in cui esce fuori, pretestuosamente, che conosce il mio attuale capo (in senso lavorativo). Non dò troppo spago alla questione, sento forte la forzatura della narrazione onirica che mi vuole sbattere in un altro posto, lontano centinaia di chilometri. Succede, lo spazio ed il tempo sfumano come un tratto di penna bagnato da comune alcol. Villette a schiera in un paese di mare della Calabria, dove il mio capo, con gli occhi sbarrati e vuoti, dissociato, prova ad ammazzarsi gettandosi in una strada dove però non passa nessuna automobile. Faccio in tempo ad avvicinarmi per salvarlo. Così è facile, non ci vuole niente, basta raggiungerlo a piedi, sono al massimo venti passi. Frasi di circostanza per farlo rinsavire e tornare indietro da una sorta di trance. È sufficiente fare ciò per eliminare la forzatura narrativa sopra citata, e come un elastico che si ritrae, torno nel posto dove mi trovavo (vale a dire la depandancè davanti alla piscina della villa dove persone di un certo sociale vanno per sognare allo scopo di trovare qualche risposta inerentemente ai loro drammi quotidiani).



Il padre della mia amica mi chiede se è tutto ok.

-Sì, per un attimo mi sono mosso avanti… non proprio nel tempo quanto nella narrazione. Credo che il termine corretto sia… catalessi? No, prolessi.

La mia amica fa riferimento al termine anglosassone “flashforward”.

-Sì, sì, esatto. Il contrario del flasbac, l’analessi appunto.



Sempre lei mi chiede direttamente: -Ti ricordi perché dovevi venire qui, giusto?

– No. Sapevo di dover venire, ne ho anche una specie di testimonianza in tasca sotto forma di un documento che avevano preparato i miei genitori per me, ma il motivo non me lo ricordo.

-Non ci vediamo da quasi dieci anni.

-E’ vero. È questo il motivo? Per rivederci?

-No.

-È troppo tardi?

– No, per fortuna sono ancora viva e direi che sei vivo anche tu.

-Ma quindi, c’è un motivo specifico?

-Sì.

-Non me lo ricordo.

-Se non te lo ricordi è più difficile.

-Non puoi dirmelo tu?

-No.

-Perché?

-Il motivo lo sapevi tu, non io.

-Nel senso che sono stato io a chiederti di vederci?

-Dovevamo vederci, ma il motivo lo sapevi tu.

-Ma quindi, è anche il motivo per cui in generale mi trovo in questa villa?

-Forse… ma è così, una mia idea, magari anche stupida, potresti andare a farti una dormita insieme a quegli altri, sperando di sognare e di trovare in sogno la risposta a questa domanda. Anche se forse non è a questo tipo di domande così insignificanti che bisogna dare una risposta.

-Hai ragione. Una risposta la posso comunque provare a dare, ugualmente, anche se magari sbagliata. Però in un tempo fermo le risposte del presente possono valere anche per il passato.

-Va bene, allora dammela.

-Mi sei mancata. O forse mi manca quel tempo, in cui i problemi stupidi sembravano scogli grandi, ma erano cazzate.

-Vivi in drammi così grossi ora?

-No, non proprio. A parte un certo problema con il tempo, con la nostalgia, con l’ineluttabilità, col concetto di irrecuperabilità, sia totale che semplicemente sostanziale.

-Fammi indovinare… mi stai per dire che ti sei giocato male tutte le tue carte, giusto?

-No, mi limitavo a pensarlo.

-Ci siamo detti tutto?

-Ci siamo detti tutto. Sono stato contento di rivederti, anche se quasi per caso.

-Per caso o quasi. In questo questo luogo e in questo preciso momento ci sei finito perché volevi finirci. È stata comunque una tua decisione.

-Le idee si sono fatte un po’ più chiare.



Saluto lei. Saluto il padre. Saluto tutti. Torno verso il sognatoio.

La signora di cui prima si ricostituisce condensandosi dall’umidità della campagna.

-In realtà penso fosse importante che tu trovassi almeno una risposta.

-La risposta in effetti già la conoscevo, solo che non la tenevo a portata di mano. Comunque non è stata una illuminazione in senso longitudinale, ma sono nella trasversalità di questa serata così… così… suggestiva in termini di impressioni, e vuota in termini di contenuti.

-Magari però…

-Magari tutti questi personaggi sono stati strumento per fare un monologo, no? Lei inclusa.

-In realtà, sì.



Mi adagio sulla postazione del sognatoio, pronto a vivere questa esperienza.

Tuttavia vengo interrotto molto prima di addormentarmi.

E’ venuto mio padre a prendermi.



La signora chiede a mio padre perché uno della mia età debba farsi venire a prendere dai genitori.

Mio padre è molto imbarazzato, e biascica qualcosa sul fatto che essendo io molto miope, di sera potrei perdere il controllo della macchina al primo abbagliante affrontato.



Saluto la signora irritato: -È inaccettabile che il valore e la virilità di un uomo vengano messi in discussione in ragione del suo eventuale guidare come un cane.



Mi deride di gusto.

Concludo dicendo:

-Sa che le dico però? In realtà ha ragione lei.



La saluto.

Lasciamo la villa in macchina.



La strada che percorriamo la conosco, anche se non si trova nel posto giusto. Capisco di trovarmici sopra solo per una questione di semplificazione narrativa. Una strada secondaria che unisce il mio paese a quello vicino, e che passa dal cimitero del mio paese. A dire il vero non dovrebbe essere così lunga, e neppure così isolata e dispersa tra le campagne.



Chiedo a mio padre cosa debba farci al cimitero.

Mi risponde in modo a modo suo chiaro. Dovrei capire, la risposta ha senso, per il me stesso di quel preciso istante, ma non saprei replicarla e di fatto non la capisco.

Mi dice anche di non aspettarlo. Mi dice che tornerò con mia madre e con un nostro zio a casa.



Mi intristisco. Penso al peggio. Penso che al cimitero ci debba andare per rimanerci.

Un brutto simbolismo. Poco accettabile. Sento un po’ di acido in bocca.

Queste sono le risposte che vanno trovate nei sogni?
Ammettere di avere paura di perdere le persone a cui vogliamo bene? Tutto qui? Grazie al cazzo.



Nel superamento delle perdite diventiamo davvero adulti.

Bisogna avere abbastanza paura di perdere le persone a cui si vuole bene per riuscire a mettere da parte gli egoismi e dare un valore a quel tempo che ci si passa insieme.



Alla fine torno davvero verso casa con mio padre e questo mio zio, ma torniamo a piedi.

Mi lamento sulla strada del ritorno di quanto queste strade di campagna siano strette e poco illuminate.

Le cose che non tornano sono tante però, a partire dal fatto che malgrado la mia lamentela in realtà pur senza ombra di lampioni la strada sia quasi illuminata a giorno, e continuando col fatto che sono quasi completamente sicuro che il verso della strada sia sbagliato, e che stiamo andando verso un altro paese. Magari hanno parcheggiato là.



Alla fine, come è giusto che sia, mi sveglio poco prima delle tre di notte. Un po’ di angoscia, ma insufficiente all’evitare di riaddormentarmi in qualche minuto.

La fine di ottobre.

Quando ero più ragazzo
ero a mio agio col mio tempo.
Crescendo lui mi ha fatto fesso
Fingendo di non passare.

Giusto la brizzolatura
Ed il conto di chi manca
Alle cene di Natale.

Ha sintomi attenuati ma dura da un po’
Non penso finirà… almeno per mo.

Non trovo un motivo per giustificarla
Forse é solo un brutto presagio
Forse é la vita che mi mette in guardia
Sul non sprecarla.

Formalmente eutimico ma col cazzo girato
Assecondo il vento nel tirare a terra i calendari
Mentre le foglie non cadono ancora
Causa estate innaturale,
per troppo protratta.

Cara amore mio ci sono cose che non vanno
Come mi muovo faccio danno.
Ma anche se non sono al centro della scena
Sento la deriva, dopo la piena.

Litri di caffé in luogo della fluoxetina
Anche al terzo piano sembra di stare in cantina.
Magari passerà da sé
O almeno lo spero, perché non mi va di cambiare niente nel frattempo.

Di piante acquatiche ce son dozzine.
Piú le conosci e piú le apprezzi
Per come affrontano i cambiamenti.

Bisogna fare i conti
Col fatto che coi morti
Si può parlare
Al massimo nei sogni.

Comunque si va avanti
Bestemmiando i santi
Per la loro pigrizia
Nell’aiutarci.

Sai, siamo tutti amici ma
Non dirlo in giro.

Sai, siamo tutti amici ma
Non dirlo in giro.

Sai, siamo tutti amici ma
Non dirlo in giro.

Un inno al perdersi (cit.)




La solita strada. Imparata a memoria. Breve, quasi brevissima. Complicata da qualche curva di troppo, dossi ben distribuiti, ed il lato della strada camuffato dalla vegetazione arbustiva, tenuta “in ordine” unicamente dai corpi metallici delle auto in movimento.

L’obiettivo era miserabile. Nessun vero appuntamento con nessuno. Solo la pretesa, consolatoria, che verso il mare si sarebbe potuto incontrare qualcuno, più per sbaglio che per altro.
L’alternativa era il paese, ma il cambio degli usi e dei costumi l’aveva reso un accampamento vuoto. Solo ventenni inconsistenti pompati di cocaina e coi propri contenuti tutti evaporati. Le altre persone significative sarebbero arrivate ad agosto, col turismo di massa. La scelta di K. lo aveva portato ad optare per la bassa stagione, le ferie intelligenti, con il loro carico di grandi spazi di vuoto da dividere col minimo possibile di umanità.
L’altro lato della medaglia era quella secondaria solitudine.

Così, infine, dopo aver caldeggiato comunque l’ipotesi di rimanere a casa a rileggere un romanzo distopico, si arrese ai propri doveri verso la propria vita sociale e si diresse ad est, verso il mare.
L’estate precedente, dal ritorno dalla ferie, si era vantato con gente di città che insieme ai suoi amici paesani giocavano a fare quelle strade abitudinarie di notte da bendati, in ragione dell’assoluta conoscenza che si aveva di quelle strade, percorse decine di migliaia di volte. La ripetizione rende perfetti, fintanto non arriva la vecchiaia a indebolire il corpo e i sensi, o finché non arriva la noia terminale che suggerisce a bassissima voce di invertire le curve al fine di movimentare il tragitto con deviazioni coatte verso ospedali o cimiteri.

K. si preparava a visitare la tomba della speranza, per orinarci sopra; tuttavia il tempo non era ancora quello giusto. Proprio non ce la faceva a rassegnarsi al fallimento dei vari obiettivi che si era dato. Non era in grado di approcciarsi razionalmente ai problemi se erano di carattere relazionale e se erano in un ambito extra-lavorativo. Nella sua nuvoletta personale di complessi di superiorità aveva una grande paura di manipolare gli altri. Ma negli spazi di soliloquio comunque si lamentava con sé stesso di quanto fosse marginale il livello di apprezzamento, affetto e calore che riceveva. La risposta però era sempre quella giusta: -Se non ti impegni un cazzo a mantenere i rapporti con gli altri, non è solo arrogante avere la speranza che ci pensino gli altri a mantenerli con te, ma proprio francamente fantascientifico.
La risposta era comunque consolatoria, poiché esisteva comunque la possibilità che fosse rimasto così solo malgrado tutti gli sforzi fatti per tenersi gli altri vicini. Si sentiva di escludere questa seconda possibilità in ragione della sua illimitata pigrizia e della comodità dello scranno di principe-genio autoproclamato, seppur a bassissima voce.

Avrebbe voluto fumare una sigaretta vera. Non per il sapore, non per la nicotina, ma per quel sottile desiderio di morte che avrebbe soddisfatto. La piena consapevolezza di stare assumendo delle sostanze dannose, aldilà dell’aspetto edonistico della sostanza. Più per la combustione in sé, per l’altissimo livello di ossidazione e di reattività di quei composti che avevano perso nell’ossigeno di quella mezza brace un pezzo di loro. Una micro-rata di un articolatissimo suicidio rateizzato, nel contesto di un mutuo molto più che trentennale.

-Alla peggio se la scampo paga comunque il SSN, sennò le tasse a che cazzo servono. Ma non è oggi il giorno giusto per ricominciare a fumare per l’ennesima volta.

La soluzione dei suoi problemi sarebbe stata un mondo con donne molto brutte. Pance cadenti, occhi infossati, nasi e menti telescopici, sederi amorfi, seni cadenti o piatti. Un mondo di donne non depilate, un mondo di donne coi capelli sempre sfatti, untuosi ai limiti della possibilità di ricavarci del combustibile. Un mondo di donne che non basano il proprio essere persone sulla loro appetibilità. Un mondo di donne dove un uomo può anche tranquillamente dire: -Sentite, gentilmente, andatavene tutte affanculo, in tutta tranquillità.

Una persona che non ha mai provato l’eroina magari sente il bisogno di stordirsi, di evadere, di sparire, ma non di farsi una spada sapendo l’esatto effetto dell’eroina. Il ragionamento è lo stesso, ma non è valido se non come speculazione funzionale al darsi un tono cinico-maschilista-cripto-vittimista. Una prospettiva terminale propria di quelli che nei paesi anglosassoni vengono definiti “incel”, ovvero zitelloni in Italia.

La radio non proponeva nulla di buono. Addirittura il pop italiano stava diventando preferibile al falso alternativismo impegnato. Il resto del menù era apparecchiato con giovani con tanta saliva in bocca che si esprimevano in neo-lingua vantandosi di quanto si drogassero o scopassero, ma con una tremenda nota maledetta di lamentela. K. sapeva quello che era giusto fare, anche se si sarebbe trattato di essere accusato di essere uno di quei vecchi qualsiasi che inneggiano ad una fantomatica “golden age” pregressa rispetto a cui la modernità attuale è spazzatura. Non gli interessava. Abbracciava il clichet. Immaginava plotoni di esecuzione in cui i suoi ex compagni di scuola sparavano con armi caricate con proiettili di gomma a tutti i colpevoli di quell’abbrutimento socio-culturale, in piedi davanti ad un lungo e continuo muro di qualche scuola superiore, magari decorato con un murale con l’orso Winnie the Pooh, vestito da poco raccomandabile spacciatore, con una giacca di pelle piena di siringhe pre-confezionate, e con la didascalica tag Winnie The Pusher. Un pezzo di Neo-stato, in quel frangente immaginativo distopico, poteva colmare l’errore di una istituzione di un Vetero-stato. Lo scopo non era di ucciderli, anche se quella era una eventualità. Si trattava solo di accumulare il massimo numero possibile di ematomi su quei corpi già emaciati, nella speranza che dove si fermavano inevitabilmente le parole potesse comunque passare un messaggio espresso in svariati joule di energia impressi in quelle munizioni di gomma.
K. sapeva bene quale fossero le colpe della sua generazione. Non avevano passato il testimone. Ma a quei tempi, dieci anni prima, si erano tutti inevitabilmente lasciati sedurre dal fascino delle macchine connesse tra loro e con le persone. Si erano arresi alla facile soddisfazione delle conferme altrui mediate da algoritmi che orientavano la visibilità di ciascuno. Il macchinario infine aveva vinto, ed aveva distrutto la società. Telefonetti di merda come dipendenza del secolo, del millennio, socialmente accettabile. Vezzo simboleggiante l’importanza che ciascuno poteva avere, tanto per le proprie opinioni, quanto per il proprio aspetto o per i propri prodotti culturali. La globalizzazione aveva vinto arando le varie sottoculture, e proponendo le proprie, ibride, inconsistenti, povere di peculiarità. L’incontro culturale non è detto che arricchisca, o non è detto che arricchisca tutti in egual misura. Il “meltin pot” mondiale, gestito da macchine Californiane, aveva miscelato tutti i colori esistenti, restituendone solo uno: il marrone, proprio come scoprono i bambini quando mischiano tutte le tempere.

Il modo giusto non c’era. Non c’era più. Il futuro era un loop dove commettere sempre gli stessi errori. K. In qualche modo però si sentiva cambiato, si sentiva più efficace in qualche modo, sentiva di avere uno sguardo finalmente tagliente e nocivo, ma pensava che quel che ci fosse di perso fossero proprio le occasioni. Si era giocato malissimo tutte le sue carte.

Quei pensieri tuttavia nel loro complesso erano troppi per quelle poche curve e quel paio di rettilinei. Fece caso, uscendo dal flusso di coscienza, al fatto che fosse passato troppo tempo da quando aveva preso la strada per il mare. Il fatto di avere ascoltato in loop Blue Monday non lo aiutava ad avere un mezzo per misurare il tempo che era trascorso. Poteva averla ascoltata tre come dieci volte, ma quella strada anche di notte si percorre comunque in meno di sette minuti. Non sarebbe dovuto arrivare nemmeno al termine della canzone, invece la aveva già ascoltata diverse volte.

Capita di perdersi.
Perdersi nel pre-sonno da nervosi.
Riesaminare precedenti passati discorsi ruminando.
Dandosi e dando ai pregressi interlocutori risposte diverse, più brillanti, più acute di quelle che si sono date nel passato reale, o quantomeno in quello registrato nella memoria.
Proiettandosi in un futuro inconsistente in cui, con quelle parole finalmente trovate, riusciamo a vendicarci dei torti subiti, a mettere in luce le colpe degli altri, in cui riusciamo ad essere completamente onesti con gli altri provando ad essere onesti con noi stessi.
Un futuro friabile che si perde nell’addormentamento, e di cui non rimane che un’eco sgretolata al mattino dopo. A volte quelle fasi di tormento notturno, che paiono perdute, sono il seme su cui effettivamente poi nel futuro reale i discorsi si costruiscono da soli, autoassemblandosi. Le parole davvero trovano espressione, subitanea, fulminante. Mitragliatrici che lasciano gli avversari sgomenti e impreparati. Proiettili che impattano sui punti deboli dell’avversario, tutti completamente esposti. Troppe parole e troppo giuste per poter essere davvero pensate e pronunciate in quel futuro. Affettive, ma senza il dolore che ha accompagnato quel tipo di parto verbale. Il dolore di quella espressione, è rimasto fermo e bloccato in un pre-sonno lontano, di leggere o pesanti insonnie. Senza zavorre quei colpi partono leggeri, ma impattano con forza. Il loro peso è a carico intero di chi le subisce.

Una fase di primavera o d’autunno, dove taluni risentono troppo del cambio di stagione per potersi permettere il lusso di crollare come sassi nel letto, e sfruttano ogni zanzara, o ogni leggera intemperia o prurito, per giustificare la propria insonnia, e sfruttarla per un arcano rituale di ascensione, il ruminio o il rimuginio, il mezzo attraverso cui ci si può illudere di trovare le proprie soluzioni, il mezzo attraverso cui ci si farcisce la propria colecisti fino a provare a farla esplodere. Il dramma non è il detto o il fatto prima, ma il non detto ed il non fatto prima. Tutte le inazioni che conducono invariabilmente a quel presente di miseria da cui ci si deve emancipare, attraverso la trappola della speranza, proiettati verso un futuro di gloria o perlomeno di rivalsa. Darsi significati, darsi valori.
Provare a limare gli attriti che il fare rango con gli altri produce. Il dramma della socialità e delle sue convenzioni. La ricerca dell’antidoto nell’anti-socialità medesima, foriera quanto la prima dello sviluppo umano, perlomeno nelle società di razziatori. La socialità diretta verso il progresso sensu-stricto, l’anti-socialità votata alla sopravvivenza, terreno per il progresso potenziale, e per la supremazia, una volta maturo un mondo di naturale e crudele competizione. Per la verità, inaccettabili entrambe. In conclusione: tristi oceani di miseria che usiamo per definire i nostri confini, come fanno le terre emerse che chiamiamo continenti.

Non c’è niente di meglio dei discorsi che si scrivono da soli, perlomeno quando conservano coerenza e coesione anche quando vengono riletti a distanza di tempo.

-Se non ti ricordi di chi sei, puoi sempre provare a ricordare cosa hai, chi conosci, cosa hai fatto, dove sei stato e con chi eri. Una volta che hai un minimo di contesto, come quello proposto in questo poco testo, puoi anche aggiungere una pennellata di colore, provando a mettere in evidenza quantomeno il come stavi, riducendolo a due sole grandezze: contento o meno. Il contento è traducibile scorrettamente con soddisfatto, anche se chiaramente non sono sinonimi. Uno che va per il sottile potrebbe provare a spiegare la derivabilità di una cosa rispetto all’altra, ma il mio compito non è questo. Non sono qui per una spiegazione, quanto per una introduzione.

Il flusso di pensieri palesatosi a K. Nell’atto di guidare sovrappensiero non aveva assunto la dimensione di franca allucinazione uditiva. Tuttavia, anche se non chiaramente udito, un flusso di pensieri può non essere attivamente pensato. Si può aggregare come flusso pensieri autonomi, autonomamente organizzantisi. Una parte scissa che si muove da sé. Quello che dovrebbe succedere nelle psicosi. Un pezzo di sé, esternalizzato impropriamente. Un pezzo di sé, messo da parte, che si fa vivo. Esternalizzato nel senso di emerso da sotto terra, e facentesi strada nel campo di coscienza.

Per dire cosa di così profondo?

-Per dirmi cosa di così profondo? Per introdurmi a cosa o per introdurre cosa?

-Ti sei perso, te ne sei già accorto. Anzi, per esattezza si è persa la strada, tu non hai sbagliato affatto. Tu hai continuato nel verso giusto, non hai preso nessuna uscita sbagliata. Lo sai, te ne saresti accorto. Si deve essere sbagliata la strada. È troppo trafficata in questi giorni, durante il giorno. Potrebbe essere uno sciopero, o una qualche altra forma di ribellione poco chiara.

-Non credo. Non è possibile. Devo avere sbagliato strada io. È possibile. Mi è successo altre volte in passato.

-No, ti sbagli dicendo che sbagli. La strada è quella giusta. Non è un’altra. Non è semplicemente familiare. È proprio quella, è quasi la stessa. Ci sono delle differenze dopo alcune curve, sicuramente è in loop.

-Ho superato il depuratore da troppo tempo. Non si è mai ripetuto. Si sarebbe dovuto ripetere se fosse un vero loop. Non credi?

-Non credo per niente. Non credo che le cose debbano andare nel modo sbagliato seguendo una tua logica. Se le cose vanno nel modo sbagliato lo fanno e basta, e lo fanno a modo loro.

-Assumendo che tu abbia ragione io che devo fare?

-Tra una cinquantina di metri rallenta e fermati, non sei l’unico che si è perso.

-In che senso?

Smise di rispondere.
Non c’era più spazio.

Un uomo sulla quarantina andante, vestito in modo iper-giovanilista come un ventenne, ed allo stesso tempo da quarantenne punkabestia pentito, trascinava uno scooter mal messo sulla strada buia. Luci spente, quasi invisibile. Se non messo in guardia dai suoi stessi pensieri K. Avrebbe potuto addirittura investirlo, così poco abituato in quel contesto alla possibilità di incontrare anima viva. Lo riconobbe. Lo conosceva, seppur a stento e quasi solo di nome. Avevano parlato varie volte, in diverse serate, anche quella estate. Uniti nelle conversazioni solo da una solitudine di fondo, e da differenti livelli di emarginazione rispetto al contesto: il protagonista avvelenato di odio e risentimento per quel tempo sconsolato, ed il ragazzo o il signore in scooter, semplicemente un tossico noto per essere un tossico.

-Ti ha lasciato per strada?

-Oh tu sei, meno male che è passato qualcuno. Non passava nessuno.

-È da tanto che cammini?

-Sì, ma mi sembra di non arrivare mai, è quasi un’ora che cammino, forse di più.

-Tranquillo, è quasi normale.

-In che senso?

-Molla lo scooter, andiamo verso il mare in macchina. Ma non ti posso garantire che ci metterai meno tempo che a piedi. Però almeno non ti stanchi a cazzo. In questo contesto la macchina non sembra comunque soggetta al consumare gasolio, quindi…

-In che senso?

-Sali e basta. Ci prendiamo due gassose al porto e poi ce ne torniamo affanculo.

-Va bene.

In macchina il tizio ebbe di lamentarsi delle sue disgrazie personali, dei suoi recenti e passati fallimenti, dei passi da gambero, della recidiva parziale, della sua mancata capacità di svincolo dal problema. Mise qualcuno in croce circa le responsabilità che poteva avere nella sua personale vicenda, e ringraziò qualcun altro che aveva invece provato ad aiutarlo. Il guidatore disse la sua sul problema, e si espresse anche in merito a questioni puramente farmacologiche, esprimendo una serie di pareri standard di buon senso, ben argomentati, con relativo trasporto affettivo, ampiamente riproducibili a comando, detti sottovoce dal più profondo fondo del pozzo della rassegnazione consapevole, quella da cui si può comunque avere speranza, pur senza nessun tipo di aspettativa. Copione standard, interpretazione accettabile.

-Sai, mi sono trovato a pensare a lungo a come rispondere ad una ragazza. Le spiegavo che non potevo più permettermi di sentirla. Le spiegavo che mi sentivo enormemente vulnerabile con lei, e che non volevo e potevo più sentirmi così. Le dicevo che non volevo avere un punto debole del genere. Cercavo insomma di abbandonarla nel modo più dolce, emotivo, affettivo e comprensivo possibile. Si giustificava, e poi mi chiedeva spiegazioni circa questa mia scelta. Le rispondevo che il problema non era lei in sé, ma la mancata corrispondenza e la mancata relazione tra di noi. Era l’unica cosa giusta da fare per me, l’unica scelta che potessi permettermi di fare.

-Alla fine è andata bene?

-No. Non è andata proprio. Non è andata nel senso che era lei che aveva abbandonato me. Non era più tornata a cercarmi. Mi ero trovato a pensare a come risponderle perché probabilmente volevo qualche tipo di centralità rispetto a lei. Avere ancora un cadaverino di relazione, un qualche ponte, un qualche legame, e possibilmente, se proprio andava recisa la cosa, volevo ritagliarmi io la posizione di quello che taglia il ramo secco. Vivere il dramma dell’abbandono agendolo. C’era un altro, non ero più il centro caldo del suo mondo, e realisticamente non lo ero mai stato.

-Lo avevi già capito?

-Anche un detective bravo, uno dei migliori diciamo, a caso praticamente risolto può decidere di mischiare le carte ed annullare i rapporti di causa e di effetto per non accettare la realtà compresa o intuita. È una forma di auto-manipolazione per tenere accesa la speranza, pur nella certezza parziale del fatto che la speranza sia una trappola. La speranza ti avvelena, tiene vivo il desiderio, non ti fa guardare di lato e neppure indietro. Ti fa mettere da parte il resto, ti permette di ignorare il tempo. Ti fornisce un orizzonte chiaro verso cui camminare, proprio come stiamo facendo ora. Camminiamo spediti verso una meta chiara su una strada che dovremmo conoscere, ma non arriviamo mai. Il dramma dell’abbandono andava vissuto agendolo a mia volta.

-Invece sei stato… agito?

-No. Niente. Niente di rilevante. A volte l’estate sparisce senza acquazzoni, anche se non è la regola. Va via il caldo un po’ alla volta, e poi magari le piogge vere le vedi a ottobre. Nel frattempo la sera si fa strada un certo freschetto. All’inizio la prendi anche bene perché ti libera dal caldo opprimente.

-Ho capito, ma… fino ad un certo punto.

-L’esempio è sbagliato. La metafora non c’entra niente. Bisogna solo accettare di essere abbandonati. Di non essere eventualmente sufficienti. In prospettiva bisogna investire meglio. La metafora giusta è quella della Borsa. Se le azioni sono in calo perpetuo e continui ad investire, salvo complesse manovre di aggiotaggio, vuol dire che sei un coglione che brucia soldi, o un masochista, o qualche altra cosa che in merito al contesto economico non saprei definire, ma che magari ha senso in termini di elusione fiscale.

-Ti ho seguito fino a investire, dopo forse ti sei un po’ perso.

-Perso di continuo. Ho dato un significato sbagliato ai silenzi. Non ho dato loro nessun significato, mentre invece il contenuto giusto era facilmente attribuibile, così banale da essere ignorabile. Abbiamo parlato parecchio. Troppo. Saremmo dovuti già arrivare al mare, no?

-Sì. Ma va bene anche così. Parlare in uno spazio illimitato di tempo. Finché abbiamo qualche cosa da dire.

-La disperazione ci fa una gran corte se diamo un valore ad uno spazio/tempo così fermo e bloccato.

-Mi dispiace per… questa cosa insomma.

-No, non ti preoccupare. Ti ringrazio ma… non volevo consolazione. Volevo solo potere dire questa cosa in uno spazio/tempo apparentemente così bloccato e fermo, che così tanto somiglia al pre-sonno, e così tanto ricorda una sepoltura o una sigillatura.

-Nel peggiore dei casi tra un po’ farà luce.

-L’orologio che ora segna? O è fermo anche quello?

-Sono le 4:00.

-Io sono partito da casa alle 23:00.

-Con la luce poi guarda che magari la strada la vedi meglio, e forse capiamo dove stiamo sbagliando.

-Io volevo una gassosa di notte, non una gassosa all’alba.

-Se vuoi ti giro una sigaretta.

-No, grazie. Non posso più fumare. Il fumo naturale mi chiama la sinusite, e poi sono fregato. Non voglio rovinarmi la vacanza.

-Mi sembra che stai già facendo tutto il possibile per rovinartela.

-Hai detto proprio bene. Ma magari a settembre questa serata me la ricorderò come molto più bella e divertente di come ce la stiamo vivendo.

-Sai forse cosa sbloccherebbe la situazione?

-Cosa?

-Trovare i resti di un incidente stradale.

-Non credo. Il telefono inoltre non prende un cazzo. Senza soccorsi non penso che saremmo di grande aiuto.

-In un mondo con poco senso possiamo provare noi ad inserirne un po’.

-Di senso?

-Sì.

-Vabbè, se non altro tu sai prendere una vena facilmente.

L’altro non rise, come il guidatore per una frazione di secondo si sarebbe atteso.

K. improvvisò per smorzare l’imbarazzo.

-Ti dispiace se tento la guida sportiva?

-L’ultima volta che ci siamo visti non mi avevi detto nell’ordine che: (1.) non sai guidare, (2.) devi cambiare le lenti degli occhiali che risalgono a cinque anni fa e sono completamente abrase, (3.) di notte non vedi un cazzo?

-No, non è che non vedo niente, è solo che se mi viene una macchina di fronte con gli abbaglianti effettivamente non vedo un cazzo. I primi due punti invece sono giusti.

-Malgrado queste cose non mi sembra che abbiamo tanto altro da perdere. Quindi fai pure.

K. ci provò. Alla fine si trattava di strade che diceva di poter percorrere anche da bendato, farlo di notte ad occhi aperti era comunque un po’ più facile.

Affrontò tutte le curve in maniera eccellente, spingendosi sempre più in là in termini di spinta dell’acceleratore e risparmio di frenata. Andò avanti per un bel po’, per ore.

L’altro ad un certo punto gli disse:
-Sarà forse il contesto così protetto, ma il punto numero 1 mi pare che tu lo possa mettere in discussione. Come voto ti do un 10b.

K. non entrò nel merito della b dopo il 10. Di solito era abituato a prendere voti molto più bassi dalla sorella e dalla cugina, anche al di sotto dell’1.

-No, vabbè… in larga parte è merito della macchina. Se avessi ancora la Punto saremmo già morti da un pezzo.

Una discesa però fù troppo netta, K. lo capì e frenò di colpo. La riconobbe, ampio tornante in discesa, con alla fine il triangolo del parcheggio. Erano arrivati. Era l’alba.

Il bar purtroppo era chiuso.
Aspettarono una mezz’oretta su una panchina.
K. cedette, fumò una sigaretta.
Poi il bar aprì.
Presero un caffè, e dopo un po’ anche una gassosa.

-Siete mattinieri oggi, ah?
Chiese il barista.
-No guarda, siamo partiti ieri verso le 11 di sera.
-Ah, e da dove siete partiti? Bologna? Ancona? Pescara?
-Lassamu perdere.

La gara di pistole.

K. in pieno dormiveglia guardava, sul servizio di streaming della tv nazionale, una fiction sul famoso cane Retropack, cane pastore della finanza, attuale detentore del record di sequestri di sostanze (stupefacenti, per chi non è nel settore).

K. in passato si era ben documentato su tutti gli arresti ed i sequestri compiuti grazie a quel cane, ma complice anche lo stato di coscienza appannato che aveva, per via del sonno, si trovava in difficoltà nel mettere insieme i pezzi. La fiction faceva abbastanza schifo, i dialoghi erano irrealistici e gli attori non avevano nessun accento locale, tranne quelli propriamente caratteristi e popolani (portieri, baristi) che avevano tutti un forzato accento romano. Tutti gli attori erano dei cani, tranne il cane che invece era bravissimo. K. aveva investigato sul chi fosse il cane attore che interpretava Retropack, ma aveva trovato solo siti di ultima categoria da mero clickbait, che insinuavano che nello sceneggiato il personaggio di Retropack fosse interpretato proprio dal vero Retropack. Quel cane, dai conti fatti, doveva avere circa quindici anni. Che dire, se li portava bene.

Lo sceneggiato a tratti abbandonava i classici luoghi comuni sulle fiction sugli sbirri, ma ciò era probabilmente causato dallo stato in cui K. lo stava vedendo. Il pre-sonno in qualche modo migliorava i dialoghi.

-Senti Mensola, ma che cazzo portiamo a fare il cane a fare i sequestri se poi non possiamo arrestare nessuno di questi bastardi?

-I posti in carcere sono limitati e sono sempre considerabili esauriti. Ma i posti in pronto soccorso… beh, quelli non finiscono mai. Al cane piace la droga e gli piace anche la carne di chi la spaccia. Fa parte della sua dieta.

Il cane pareva contento di svolgere il suo dovere. Partiva ad inseguire un nord africano, e manteneva costante la velocità su quella dello spacciatore, per farlo stancare con la corsa. I finanzieri non partecipavano alla corsa. Si limitavano a gustarsi la scena, o a puntare da lontano la pistola facendo finta di fare fuoco. Per fornire un contorno di frattura rispetto a quelle scene violente, durante gli inseguimenti i due finanzieri cantavano la famosa canzone di Retropack:

-Retropack,

tu lavori in finanza,

Retropack,

si lo fai con costanza,

Retropack,

un cane solo

che vale più di tutti noi.

Il cane era autonomamente in grado di schivare coltellate, e di mantenere il controllo della situazione semplicemente col contatto oculare. Non colpiva mai mortalmente, ma mirava tendenzialmente alle mani o ai succosi polpacci. Talvolta, quando era particolarmente euforico al tendine d’Achille. Raramente si arrivava all’arresto, e di solito i finanzieri congedavano lo spacciatore ferito in terra con frasi del tipo: -Vabbè, per questa volta ti è andata bene. Alla prossima.

Parlando del cane dicevano:

-Certo che è un vero figlio di puttana. Mai visto un cane così intelligente.

-Non per niente lo chiamano la Montessori dei cani. Educa tutti questi bastardi con la violenza, peraltro deresponsabilizzandoci. E poi è un idolo di grandi e piccini.

-È super-simpatico come cane, almeno fino a quando non hai della droga addosso.

-Pensa se un giorno per sbaglio ci facciamo una canna con lui intorno.

-Ehi, non possiamo fare ‘sti discorsi in una fiction RAI. Ricordati che siamo contro la droga.

Il cambio di verso dei contenuti fece rendere conto K. che il suo assonnarsi lo aveva portato ad integrare dei contenuti onirici all’interno della fiction. D’altro canto rispetto alla media dei prodotti televisivi della rete nazionale c’erano dentro una violenza ed un cinismo esagerati, dipingendo a tinte fosche delle forze dell’ordine che non potendo più arrestare la gente si limitano ad una repressione educativa.

Si svegliò del tutto.

Non era ancora così vecchio da bruciarsi definitivamente la vita davanti alla fiction italiana.

-Sapevo che dopo quei fatti del girino sarebbe finita. Ora devo rassegnarmi del tutto.

Tuttavia non riusciva a tenere bada l’amarezza. Non tanto per il suo finalmente accettato bidimensionale ruolo identitario. Non tanto per la solitudine densa su cui faticava a scivolare.

Il suo problema era che aveva nuovamente bucato la bicicletta su dei cocci di vetro. Il classico microevento che causa una rottura in una lastra di vetro già ai limiti. Piccolo casus belli adeguato rispetto al giustificarsi nel fare una guerra.

Voleva lanciare un segnale di controllo territoriale. Voleva mettere paura ai bastardi che spaccavano le bottiglie in giro, peraltro probabilmente gli stessi che spacciavano nel parco vicino a casa sua.

-In fin dei conti sono già andato al parco a minacciare della gente con un’arma. Non ho dovuto sparare nessuno. Certo, è un reato, ma cosa ci insegna la cinematografia degli anni settanta ed ottanta? Chi meglio di un comune cittadino può risolvere il problema della microcriminalità? Peraltro io non sono neanche ricattabile tramite il rapimento di un familiare o di un amico. In questa città sono finalmente da solo.

Aveva barattato con un napoletano conosciuto sul sito ilmioamicoferro.it la sua Chiappa Rhino con una Colt Detective Special. Entrambi avevano concluso quell’accordo convinti di aver fregato l’altro.

-Se ci fosse Retropack con me sarebbe tutto più facile. Mi accontenterei anche di un gatto fantasma a dire il vero, se non altro per avere una spalla con cui parlare. Invece mi devo rassegnare al triste parlare da solo. Mi devo proprio accontentare.

K. scelse con cura la giacca.

La sua frase topica era sempre la stessa. Smuovendo la giacca a sufficienza da far intravedere il ferro avrebbe detto: -Senti ma… che dobbiamo fare?

Non vedeva l’ora.

Era secondariamente preoccupato del proprio non sentire la paura.

Doveva gestire quella falsa sicurezza del sentirsi un predatore.

Si recò a piedi verso il parco.

Immaginava la puzza di piscio di quei bastardi pronti a farsela addosso non appena visto il ferro.

Se le cose si fossero messe male, se qualcuno avesse reagito, sarebbe finita malissimo, in tutti i casi.

Se si fosse limitato a schivare una bottigliata, senza sparare, quegli altri li avrebbero fatto la festa.

Il limite delle armi è che una volta che le tiri fuori, devi essere pronto ad usarle. La deterrenza diventa pericolosa quando sei visto come una minaccia ineludibile. In ragione di ciò probabilmente sono preferibili le armi bianche, ma se poi quell’altro ha un’arma da fuoco il game over è quasi inevitabile.

Per strada cantava senza limitarsi una canzone inventata sul momento:

-Ok siamo tutti amici, ma non dirlo in giro.

Se per andare sul sicuro,

punti tutti sul siluro,

se vuoi prendermi alle spalle,

pensando sia uno molle,

te lo dico lapidario

vacci in fretta dal notaio

che ti serve un testamento

è arrivato il tuo momento.

La serata si fa bella

se fioriscon le cervella,

dura meno di un secondo

e poi te ne vai dal mondo.

Ok siamo tutti amici, ma non dirlo in giro.

Una volante della polizia lo seguiva a passo d’uomo.

I due poliziotti salutarono K., chiedendogli dove andasse.

-Niente, faccio tipo una passeggiata. E poi ecco, devo risolvere alcune situazioni.

-Situazioni tipo?

-Voglio vedere che gente ci sta al parco. Mi pare che ci sia gente un po’ di merda ultimamente.

-E che vuole fare?

-Una controllatina.

Il poliziotto che parlava con K. dalla macchina notò il rigonfiamento sotto la giacca.

-Mi faccia capire una cosa, ma ha una pistola in tasca o ha qualche feticismo per la polizia ed è molto contento di vederci?

-Ah, avete notato il ferro. Beh, sapete, di questi tempi… Non si scherza.

-Ah, ah. Ho capito. Senta mi faccia un piacere, salga in macchina.

-Nel senso che sono in stato di fermo?

-Salga, salga.

K. salì in macchina senza fare storie.

L’alternativa era sfidare la polizia, o tentare la fuga a piedi. Nessuna delle due ipotesi pareva percorribile senza potenziali gravi conseguenze.

Salito in macchina chiese: -Dove stiamo andando?

Uno dei due, quasi sulla quarantina, rispose: -Ad una gara di pistole.

-Sicuri?

-Sicuri.

-Ma in che senso?

-Tu hai una pistola. Noi pure. Spariamo a dei bersagli mentre beviamo un analcolico e ci fumiamo delle sigarette. È un modo per passare la serata insieme tra persone che la pensano nello stesso modo.

-In quale modo?

-In quello giusto, no?

L’altro poliziotto era più giovane, aveva poco più di vent’anni. Si dimostrò da quasi subito estremamente logorroico.

Ci mise pochi secondi a bruciare il discorso inerente alla gara di pistole:

-Ti stavo dicendo che io ho questo progetto con cui potrei farci bei soldi…

-Ah, sì, sì. Dì, dì…

-Sul mercato ancora non c’è niente del genere. Non in questo modo almeno, non per come l’ho pensato io, diciamo.

-Sì, Sì, dimmi.

-Allora, ascolta bene e tieniti forte… tieniti forte anche tu seduto dietro perché è una vera bomba…

K. non gradiva quel modo così americano di formulare le frasi, o perlomeno così simile al come certe espressioni americane venivano tradotte in italiano. Tuttavia si frenò nel dare addosso al ragazzo.

-Allora… ricominciamo: un simulatore della vita di un gatto. La principale meccanica è il rango del gatto, definito da numerose cose da fare, ma soprattutto combattimenti con altri gatti e le gatte femmine che ti piombi, cioè che si piomba il gatto insomma. Ci si riposa mentalmente dormendo, e si aumenta la potenza dell’animale oltre che con combattimenti ed allenamenti, soprattutto con l’alimentazione, puntando al massimo su proteine e grassi animali. Ci saranno anche degli aspetti sulla caccia, ma non voglio concentrarmici troppo, per via degli animalisti… sapete. Quindi vorrei metterla prevalentemente sui combattimenti e sugli accoppiamenti, che poi, anche questi ultimi hanno comunque una certa dose di violenza, e che sono in qualche modo un tipo particolare di combattimento. Ci saranno comunque vari parametri importanti, oltre a dieta ed esercizio, tra cui sicuramente la genetica del gatto e quindi la razza di provenienza, nonché malus legati alle malattia che non solo potranno causare Game Over, ma anche indebolimento del personaggio permanente. Per ovviare questo il gatto dovrà farsi curare dagli esseri umani, e qui viene il bello… cosa deve fare un gatto per avere accesso alle cure?

L’altro rispose: -Andare in ospedale?

-No! Dai, è facile.

-Andarsene tipo… affanculo?

-No, sei fuori strada. Il gatto deve fare la puttana con gli esseri umani, per garantirsi di essere curato.

K. chiese una sigaretta, lo sbirro più anziano gliene diede un paio.

-Mi raccomando non fumartele tutte e due insieme.

K. le accese entrambe.

Il giovane riprese: -Aspettate però, non è finita. L’ulteriore meccanica del gioco è che ad un certo punto… e qui viene il bello, si potrà cambiare gatto. Ma si potranno usare solo i figli del nostro gatto protagonista, figli delle gatte che ha messo incinte. Che ve ne pare come idea?

K. rispose: -Alla grandissima.

-Chiaramente bisogna stare attenti nel corso del gioco a non scoparsi gatte con cui si è imparentati, pena statistiche di merda nella prole. Comunque l’ultimo elemento che volevo presentarvi è quello dei combattimenti con altre specie concorrenti: volpi, cani, tassi ed altri animali del genere.

K. chiese: -Mustelidi vari?

-Esatto. Ma il nemico principale chiaramente saranno i cani. Ma ricordatevi che un gatto può sempre tirare fuori gli artigli… e non solo per combattere, ma anche per salire sugli alberi e fuggire. Chiaramente sconfiggere in combattimento un pitbull farà alzare di molto il rango del gatto, ma sarà anche molto difficile, tipo in quei giochi che vanno di moda ora molto difficili…

-I soulslike?

-Esatto.

-E poi ecco…

L’altro poliziotto fu abbastanza esplicito: -Senti, hai rotto il cazzo con sto progetto di merda.

Il giovane chiese a K. cosa ne pensasse:

-I simulatori di vita quotidiana sono sempre complicati. Ma l’idea secondo me è molto buona, ma va realizzata bene.

Il livello di velleità in quella automobile tuttavia era destinato ad addensarsi.

Il poliziotto più anziano, forse solo per zittire il più giovane, disse la propria: -Io ho mandato a Netflix alcune pagine di word con un piccolo soggetto. La storia è quella di due poliziotti, di cui uno è sulla quarantina ed è un asso della squadra omicidi, ma con un grande segreto. Il suo collega, l’altro poliziotto, ha 33 anni, e li avrà per sempre. Non so se mi sono spiegato…

K. intervenì: -L’altro sbirro è Alessandro Magno resuscitato?

-No, no. É Gesù Cristo.

-Ah, e come si integra con la storia?

-Beh, facile. Praticamente quando vanno sulla scena dell’omicidio Cristo resuscita la vittima, e senza tirarla troppo per le lunghe si fa dire il nome del colpevole. Poi però, per non fare sgamare la sua identità ed il suo ruolo segreto, è costretto a riuccidere la vittima. Ma risolvono tutti i casi facilmente.

-Ma quindi finisce subito così ogni puntata?

-Sì, ma alla fine sono tipo dei corti.

-È un’idea originale.

-No, ma dipende anche dal fatto che i gialli sono complicati. Ci sta tutto un intreccio da fare, la suspance, i sospetti da far avere allo spettatore, etcetera. Invece secondo me questi corti sono molto facili da seguire. Si chiede direttamente alla vittima e poi pace.

-Assolutamente in linea con l’epoca che stiamo vivendo, in cui la gente ha una capacità attentiva estremamente limitata. Però volevo chiedevi una cosa molto importante: voi lo seguite Retropack in tv?

-Sì, ma Retropack è un cane della finanza. Non apprezziamo troppo il grande lustro che da alla finanza. È esagerato. In più pare che in realtà Retropack sia un nome collettivo.

-Nel senso che ci starebbe più di un cane con quel nome?

-Dicono che il vero Retropack sia morto anni fa. Nella concitazione di un sequestro dicono si sia lanciato su una panetta di eroina scambiandola per cocaina. Puoi facilmente immaginare l’epilogo.

-Beh, immagino che i colleghi non avessero del naloxone pronto.

-Colleghi? Ma sei in una forza di polizia?

-No, no. È solo che considero Retropack una specie di collega, e quindi per estensione… E comunque intendevo i vostri colleghi, ecco.

I poliziotti fecero un commento tra loro a bassa voce sullo stato di lucidità di K.

Parcheggiarono come capitava.

Scesero dall’auto.

K. li guardò bene in faccia per cercare di tirare fuori qualche valutazione antropometrica da pseudo-lombrosiano quale si professava. Erano abbastanza normali. Il giovane aveva un pizzetto fastidioso e ben rasato, ed un doppio taglio poco sfumato. Il più anziano aveva le occhiaie di chi dorme poco per l’insonnia, ed i denti di chi fuma parecchie sigarette di notte per via dell’insonnia.

-Mi fate capire una cosa -chiese K.- la serata finisce che mi portate dietro un angolo e mi ammazzate, giusto?

-No, no. Perché dovremmo?

-Non saprei, per tipo i miei trascorsi col Partito Grigio?

-No, no. Stai tranquillo. Noi non abbiamo idea di chi sei, e ti dirò di più, non ti chiederemo neppure come ti chiami. Non ce ne frega. Si capiva da come andavi in giro con quella pistola sotto la giacca che sei uno che la pensa giusta. Stai tranquillo.

-Ma quindi, che stiamo andando a fare?

-Quello che eri venuto a fare anche tu, no?

-Cioè, stiamo per andare ad ammazzare degli immigrati?

-No, no. Quello è illegale. Noi ci muoviamo su un terreno già abbastanza scivoloso… Noi facciamo un’altra cosa però, abbiamo trovato un altro modo.

-Li pestate a sangue?

-Neanche.

-Non so… ve li inculate per far loro passare la voglia.

-Neanche.

-E allora?

K. notò che il giovane stava raccogliendo in una grossa busta di plastica delle bottiglie di vetro.

-Quelle cazzo di bottiglie, le spaccano dappertutto.

-Eh sì -rispose il poliziotto più anziano- e noi le raccogliamo.

-Però così mi sembra che si faccia un po’ di confusione tra il concetto di polizia e quello di pulizia.

-Questa è una battuta veramente da Paperino.

Il giovane posizionò le bottiglie di birra vuote su una panchina senza schienale.

Il più anziano porse a K. una manciata di pallottole e gli spiegò come funzionava la cosa:

-Per quattro bottiglie hai quattro colpi. Funzionano così le gare di pistola.

-E chi vince cosa vince?

-Gli altri gli offrono una sigaretta, o un analcolico.

-Ah, ma… a che serve?

-Ogni tanto bisogna sparare, sai per fare capire che siamo in grado di farlo, per fare capire che al momento giusto possiamo farlo. Poi loro, gli abitanti della notte, si passano la voce. Si passano la voce sul fatto che ci sta gente in giro la sera, armata e molto più pazza di loro, e che al momento giusto può risolvere in un secondo tutta una serie di scelte di vita sbagliata usando un certo elemento della tavola periodica.

-Il piombo?

-Garantito al limone.

K. quella sera si divertì molto a sparare alle bottiglie insieme ai suoi nuovi amici.

Il parco divenne finalmente deserto.

Nessuno spacciava più, nessuno lo usava come bagno a cielo aperto, nessuno si sentiva più padrone di fare quello che gli pareva.

-Non è così male essere nelle istituzioni!

-Nelle istituzioni sì, ma non un certo margine di fantasia e di libertà.

Purtroppo K. il giorno dopo forò nuovamente la bicicletta su dei cocci di bottiglia.

Al cavaliere nero non gli devi da cacare il cazzo. (cit.)

(ispirato dalla famosa barzelletta di Proietti)

Una vita di rimpianti.

Una senilità raccolta.

Una serie di titoli conquistati sul campo, tra cui quello di cavaliere formalmente imbattibile.

Un unico oggetto magico, proveniente da un futuro lontano. Un libro che parlava delle non-gesta non-eroiche di un cavaliere spagnolo in ritardo di qualche secolo rispetto alla cavalleria. Un romanzo sulla malattia mentale più che altro.

Il cavaliere si teneva stretto quel romanticismo, pensando che in futura la cavalleria non ci sarebbe più stata, ma non sarebbero mancati i nostalgici della stessa.

Rispetto alla propria solitudine diceva: -La vecchiaia è quel posto al cui interno trovi solo quello che ci hai portato. Io l’unica cosa che ho trasportato sono vagonate di altri cavalieri, inviati però non nella mia vecchiaia, ma direttamente all’altro mondo.

Sbiaditi ricordi degli amori passati, della cui intensità ed effettivo valore dubitava.

Invecchiando aveva perso quasi tutta la sua rudezza e ruvidità, e spesso ragionava sul se avesse potuto vivere una vita diversa, non nelle armi ma in qualcosa di più umano. Era però perfettamente conscio della non riavvolgibilità del tempo, e si sforzava di accettare il proprio presente figlio dei pregressi errori, di cui non andava orgoglioso ma che in qualche modo si erano rivalti necessari.

Il cavallo che lo portava in giro era eccezionalmente vecchio, ma incredibilmente vigoroso benché bizzaro nel comportamento e nelle abitudini. Superati i quindici anni di età si era dato al carnivorismo. Non disdegnava, nello specifico, i cadaveri di uomini.

Il mezzo di sostentamento del cavaliere era più che miserabile. Veniva chiamato da abitanti di qualche villaggio per sedare scaramucce locali, il più delle volte coi malviventi del posto. Le scaramucce per quanto “ucce” venivano comunque sedate nel sangue.

Si vedeva, malgrado l’età, più come un boia che come un cavaliere.

Malgrado le sue ginocchia suonassero come nacchere e la sua schiena dolesse come se la colonna ospitasse uno spinoso roseto, la perfezione dei suoi movimenti gli permetteva di vincere qualsiasi combattimento con la stessa naturalezza di un fattore che tira il collo ad un coniglio o ad una gallina.

Una pesante armatura nera che non era facile comprendere come riuscisse a reggere. Una spada che sembrava d’onice o d’ossidiana, ma che lui garantiva che fosse solo di acciaio macchiato. Uno scudo leggero, nero anch’esso, con sopra inciso un grosso cane bianco, somigliante ad un pastore maremmano, un cane nero somigliante più ad un lupo, ed un grosso gambero dominante tra i due. Tuttavia la sua arma principale e la sua corazza più resistente erano l’illimitato livore e l’enorme risentimento nei confronti di una vita, che nella vecchiaia, gli sembrava essere stata verso di lui ingiusta.

Diceva al suo cavallo: -Carissimo Luna Nera, ho vissuto come mi pareva giusto vivere. Ho fatto il mio lavoro, per quanto eticamente discutibile fosse. Ho partecipato anche una crociata, per quanto fallimentare malgrado le mie tante vittorie ai punti. Ho sempre fatto quello che dovevo fare, tranne tentare di ingraziarmi i vari signorotti locali o la pulciosa e viscida curia. Tuttavia quello che ho messo da parte è poco, una masseria dove non dormo mai, e la libertà di cavaliere errante, terrifico e temuto e rispettato, ma senza calorosi porti dove tornare. Penso di aver sbagliato tutto. Penso di essermi giocato molto male le mie carte.

La sfortuna del cavaliere, una delle tante, era quella di essere sano di mente, con tutti i limiti del caso, incluso soprattutto quello relativo al fatto che il cavallo non potesse rispondergli.

Un cavaliere bianco al contrario, duca e signorotto, godeva di una ampia e grassa progenie.

Sfarzo, terre, ricchezza, opulenza. Una famiglia eccezionalmente numerosa, i cui però i diritti e le tutele erano rigidamente in mano alla linea di sangue maschile.

Si faceva chiamare Duca della luna bianca, e passava le giornate a vantarsi di vecchie e millantante glorie. Non era un pezzo da nulla, ma neanche un pezzo grosso della cavalleria, in termini di valori; al netto di tutto però era ampiamente considerabile un pezzo di merda, se non altro per la propria gradasseria.

Provocato dai suoi nipoti e pronipoti circa la propria virtù bellica ebbe da litigare furiosamente:

-Quindi nonno, che tanto ti vanti dei tuoi passati, non pensi che per darne a noi prova dovresti cimentarti in una vera impresa?

-Sentiamo, cretini di prima specie, cosa dovrei fare?

Venne sondata una lista delle imprese possibili da svolgere:

-Ipotetiche crociate che però non parevano in vista.

-Caccia a qualche abnorme cinghiale.

-Ricerca e uccisione di un poco plausibile drago.

Infine, si accordarono su una impresa che pareva maggiormente plausibile.

Disse uno dei pronipoti.

-Nonno, nonno. Accordiamoci su qualche cosa alla tua portata. Nei pressi della città di Sgiurdiniano staziona il famoso cavaliere nero. Quello delle mille imprese e già eroe di almeno una crociata. Ha acquisito infiniti punti valore, lavandosi nel sangue di migliaia di uomini. Ma nel presente che viviamo ha ben più di settant’anni, e gira voce che passi le giornate a parlare ad un cavallo che, per forza di cose, non può e non vuole rispondergli. Sarebbe sicuramente un bell’affare per te, che sei dieci anni più giovane di lui, sfidarlo ed ucciderlo. La nostra casata ne beneficerebbe enormemente. Il valore che lui ha conquistato in cinquant’anni diventerebbe nostro nell’arco di una mattinata.

Il nonno rispose: -Certamente è una valida idea, anche se quel tale nel sangue pare lavarsi ancora. Ma per fortuna solo nel sangue di piccoli banditi e di impiastri da quattro soldi. Accetto quindi di buon grado la sfida. La sua armatura sarà un pezzo di pregio nel nostro corridoio dei trofei.

L’intera famiglia, con le varie diramazione di larga maglia accolse con estremo entusiasmo tale possibilità.

-Non potevi prendere decisione più lieta nonno.

-Questo è il vero coronamento di una storia familiare di livello, che diverrà a breve di livello assoluto.

-Forse il titolo di duca non sarà più sufficiente!

-Se il nonno diventasse principe, sai che svolta.

Il Duca Lunare quindi si diresse dal cavaliere nero, portando con sé unicamente il paggio Giansergio come testimone.

La sua armatura era bianca, e portava con sé cavallo e spada anch’essi bianchi. Il paggio, che svolgeva anche la mansione di scudiero improvvisato, teneva ancorata al proprio cavallo anche un’alabarda del duca medesimo, bianca e con qualche rubino ornata.

Diceva il duca al paggio: -Su questi personaggi si ricama sempre molto. I numeri si moltiplicano, le imprese si ingigantiscono. Se si rimane tra i pochi vivi su un campo di battaglia si possono rivendicare tutti i morti che si vuole. Il valore di uomini straordinari esiste, ma la carne è la stessa per tutti, ed il ferro, col giusto slancio, è più che sufficiente a renderla concime. Questo vale sia per gli uomini miserabili, che per quelli ordinari, ed addirittura per quelli straordinari.

Il paggio annuì viscidamente, leccando come di consueto il sedere del proprio padrone.

Arrivarono dal cavaliere nero. Lo trovarono nell’atto di chiedere al proprio cavallo a quale motivazioni si dovesse aggrappare per poter continuare a respirare. Il cavallo non rispose.

Ci pensò il duca però a rispondergli, presentandosi.

-Sono il Duca Gregorio, anche conosciuto col titolo onorifico di Duca Lunare. Sono qui oggi per sfidarvi, ed in linea con quello che chiedete al cavallo, sono qui anche per restituirvi una motivazione per cui respirare e combattere. In alternativa però si può dire che sono qui anche per prendermi la vostra testa ed il vostro onore.

Il cavaliere nero si sgranchì le spalle.

-Un vecchio come me è poco più di un fantasma. Un guscio di legno che viaggia in un mare di nebbia, senza alcuna direzione reale, senza sapere a che sponda votarsi. La mia vita, nella sua complessità, riguardandola da lontano mi appare come un campo brullo e sterile, concimato col sangue e con la carne degli uomini. Un campo però che, a differenza dei veri campi di battaglia, risulta però assolutamente sterile.

-Accettate quindi la sfida?

-Con piacere. Ma un vecchio come me non potrà darvi molto divertimento. Se aspettaste qui fino al termine della mattinata potrei addirittura morire da me di noia o di fulminante vecchiaia e voi potreste prendervi comunque l’onore e la glora a me legati, colpendomi postumamente. Se però non avete pace di aspettare e volete accelerare il processo, io sono qui per affrontarvi e per perdere.

Il paggio derideva il cavaliere nero per la sua mancanza di orgoglio e per la propria estrema umiltà.

Il duca lunare invece appariva preoccupato. Si aspettava un vecchio irritabile ed arrogante, ma quelle parole di pace dichiarate gli restituivano una impressione di situazione non perfettamente a fuoco.

Il paggio tuttavia lo spronò, e decise quindi di tentare di porre il prima possibile termine a quella disturbante situazione.

-Accettate, cavaliere nero, che io vi affronti con alabarda e spada.

-Sentitevi libero di usare le armi che meglio preferite, in fin dei conti questo duello è quasi una formalità. Facciamo in modo che duri il meno possibile.

Il duca si fece coraggio. Caricò con l’alabarda come nei suoi anni migliori. Un colpo di taglio, diretto dall’alto verso il basso, a mezzaluna, come il blasone di famiglia.

Il cavaliere nero si fece di lato, quasi come fuscello spostato dal vento. Portò la spada al collo del duca, ormai sbilanciato, e lo penetrò da parte a parte. Ruotò la spada solo per assicurare un coerente fiotto di sangue.

Al duca morente disse:

-I duelli sono così, sono sempre un po’ imprevedibili. Uno magari partecipa con la decisa intenzione di perdere, ma poi la paura di morire o anche semplicemente solo del farsi male prevale… ed a quel punto in qualche modo bisogna fare.

Il duca cadde al suolo morto.

Il cavaliere nero fu educato e gentile col paggio. Non ebbe pretesa di appropriarsi d’armi, armatura, cavallo o altri averi. Chiese unicamente al paggio un contributo economico per saldare il lavoro svolto, cosicché potesse provvedere al proprio auto-sostentamento.

-Mi rendo conto che non è corretto chiedere del denaro, dato che ad inizio duello non era stato concordato, ma l’esito più probabile appariva così diverso dal come sono andate le cose che in effetti non avrebbe avuto molto senso chiederlo prima.

Il paggio cedette al cavaliere nero delle monete d’oro e portò al castello il corpo del duca.

La famiglia del duca non accolse bene la notizia.

Il funerale durò tre giorni.

Il senso di colpa relativo all’aver mandato il capo famiglia verso la morte venne rapidamente sostituito dall’odio verso quel cavaliere che lo aveva ucciso, probabilmente con l’inganno. Dal resoconto del paggio venne tratta l’interpretazione relativa al fatto che il cavaliere nero avesse fatto appositamente una messinscena volta al farsi sottovalutare, per colpire mortalmente il duca al primo passo falso, sfruttando il falso senso di sicurezza indotto dal proprio dichiarato desiderio di morte.

I figli del duca, Dusco, Daspa, e Ramaruta decisero che tale delitto andava certamente vendicato, e che non si poteva lasciare andare la famiglia in rovina parallelamente allo sgretolamento del valore del blasone familiare.

-La notizia si diffonderà in tutto il regno, e la nostra famiglia verrà considerata disgraziata, avendo noi perso il nostro capofamiglia e duca nello scontro con un vecchio pazzo.

-Quel vecchio pazzo però, occorre dirlo, ha nomea di cavaliere leggendario. È stata anche nostra colpa inviare nostro padre in un duello con un simile mostro dei campi di battaglia, con la stupida sicurezza che la vecchiaia avesse potuto seccarlo.

-Non importa. Metteremo in giro le voci che ha vinto con l’inganno, così che ci pensino i cavalieri del regno a metterlo a riposo.

-Se ci pensassero i cavalieri del regno a mandarlo al creatore, perderemmo quello per cui nostro padre è morto. Un onore più grande. Una corona più grossa. Entrare nella leggenda. Se poi come in effetti pare, quel tale è riuscito a vincere esclusivamente con l’inganno, noi che di anni ne abbiamo 30 di meno, dovremmo riuscire ad avere ragione di lui, soprattutto presentandoci unitamente.

I nipoti del Duca furono d’accordo coi figli. I pronipoti non avevano molta voce in capitolo.

I tre partirono, accompagnati dal paggio.

-Non possiamo prenderlo sottogamba. Le leggende non si creano da solo. Si scrivono usando il sangue dei nemici come inchiostro e la propria armatura come carta.

-È però inaccettabile pensare che un vecchio cavaliere errante, uno che dorme nei boschi, possa aver ucciso nostro padre armato di alabarda, utilizzando peraltro unicamente una spada.

-Diceva il padre di nostro padre che l’esito dei duelli rimane sospeso perlomeno fino al secondo o terzo sangue. Non sai mai quale possa essere l’effettivo valore o disvalore del tuo avversario. Non ne conosci le virtù e i difetti, non puoi sapere se ricorrerà a dei trucchi.

-Ma non è questo il punto. È un vecchio fiaccato dall’intemperia, che mangia quel che trova e che probabilmente non si lava da mesi. Un vecchio di merda che vive dentro un’armatura da chissà quanto tempo. Parla solo col suo cavallo. Un uomo del genere dovrebbe essere chiuso in un sanatorio fino a quanto smette di respirare. Un uomo del genere non può essere un cavaliere di valore.

-Tutte queste difficoltà probabilmente lo hanno temprato. Il suo non aver niente da perdere è probabilmente ciò che lo rende così temibile. La morte è attratta prevalentemente dalla paura di coloro che la temono.

Lo raggiunsero infine, nel medesimo luogo in cui aveva ucciso loro padre; la stessa radura.

Lo trovarono intento nel tentare di affilare la propria spada su un grosso sasso, che aveva spezzato su un lato.

Li accolse garbatamente:

-Oh, salve. Voi dovete essere i figli del Duca Lunare. Non ero sicuro del fatto che sareste venuti.

Il più sfacciato dei tre, Dusco, chiese: Non avete abitudine di levarvi l’elmo davanti alla nobiltà?

-Armatura e pelle, nel mio caso, sono quasi fuse insieme. Quest’armatura è il guscio che tiene insieme il mio corpo. È un equilibrio molto fragile. Se dovessi toglierla non credo che le mie ossa reggerebbero il loro stesso peso. La vecchiaia è una brutta malattia, e le sue cause, vale a dire il tempo passato e la scarsa volontà di morire, sono purtroppo ineradicabili. L’unica cura che pare funzionare è la morte, ma è una medicina che non tutti accettano.

-Smettetela di prendervi gioco di noi, o volete forse farci credere che i vostri bisogni li fate nella vostra armatura

-Non intendo stare qui a specificare in che misura questa armatura impedisca o meno la soddisfazione di certi bisogni. Mi limiterò però a dire che bevo e mangio molto raramente, quindi la questione, praticamente, quasi non si pone.

Disse Ramaruta: -Siamo venuti qui per vendicare nostro padre.

Rispose il cavaliere: -Questo vostro proposito legato al duello che intendete con me intraprendere è certamente più nobile di quello che animava vostro padre. Il duca lunare mi ha affrontato solo per mere questioni di fama e gloria, e probabilmente questo è uno dei motivi per cui ha perso. Chi invece duella per vendetta, ha quella spinta in più che può fare la differenza.

Concluse Daspa.

-Così sia allora, usiamo i ferri come pennelli per scrivere in rosso la parola vendetta.

I tre lo affrontarono in successione.

Il primo, Dusco, pazzo di rabbia disponeva di un grosso scudo chiodato ed una mazza anch’essa chiodata. Perse il fiato nel tentativo di colpire il vecchio, che sgambettando evitava i lenti ma potenti attacchi dell’uomo; dopo una lunga sequela di attacchi, Dusco, decise di tentare un approccio più difensivo, nascondendosi dietro il maestoso scudo.

Il vecchio gli disse: -La rabbia è così bella, ti riempie il cuore. Ma a volte è insufficiente e grossolana. Personalmente preferisco il freddo come genere, lento, inesorabile, e passa bene attraverso il metallo delle armature.

-Cosa significa? Non vi è rimasta nessuna forma di senno?

Dusco toccato dalle vuote e incomprensibili parole del vecchio si lanciò a capofitto, certo di colpirlo, confidando che le parole del vecchio fossero sintomo di pazzia inarrestabile.

Lo spostamento dell’anziano avvenne all’ultimo momento possibile.

Dusco rovinò in terra. Il cavaliere nero riuscì con precisione a piantare nell’elmo e negli occhi dell’uomo la propria spada, attraverso la feritoia.

I due fratelli restanti erano frastornati, ma non si persero di coraggio.

Seguì Ramatura, il più saggio dei tre, che tentò un approccio dialettico.

-Avete appena ucciso nostro fratello, usando la sua stessa rabbia contro di lui. Non vi sentite un po’ scorretto ad usare certi trucchetti?

-I trucchetti pagano una o due volte. Sopravvivere tanto a lungo, e portarsi appresso un simile bagaglio di morti, implica necessariamente l’avere altre risorse, diverse dai trucchi.

-Quindi ci tenete a rimarcare il vostro valore dichiarandolo chiaramente?

-Non ho nulla da dichiarare, tranne il fatto che ancora respiro. A differenza di vostro fratello, di vostro padre, e di tutti coloro che li hanno preceduti nella corsia dell’inferno di mia pertinenza.

-Come osate.

L’armatura di Ramaruta era un tesoro familiare. Bianca avorio, presentava in rilievo una rossa fiamma stilizzata. Era dotata di griglie metalliche accessorie volte a proteggere qualsiasi punto debole di snodo articolare, o feritoia visiva.

Utilizzò come arma l’alabarda del padre.

Si lanciò in combattimento ragionato, tenendo la distanza e mirando con precisione.

Il cavaliere nero utilizzo sia spada che scudo per parare e deviare i colpi.

Quando le distanze si accorciavano utilizzava semplicemente lo scudo per tentare di colpire contusivamente la testa di Ramaruta.

Il cavaliere nero parò e devio tutti i colpi del suo nemico, che seppur protetto da una inviolabile armatura, a forza di prendere botte sul capo si accasciò infine in terra.

Ramaruta perse conoscenza e dopo poco morì.

Il cavaliere nero sentenziò: -Bisogna fare attenzione alle botte sul capo. La testa sembra tanto dura, ma ci sono molti materiali più duri dell’osso, ed è molto facile divenire cadavere gettato in un fosso.

Daspa estrasse in fretta il suo fioretto.

-Avete ucciso i miei fratelli. Avete dimostrato quel che valete. Ma la vostra fortuna finisce qui.

Si tolse l’elmetto e sfidò con coraggio il cavaliere.

-Avete sfruttato a vostro vantaggio la pesantezza della armature dei miei fratelli, ma con me andrà diversamente, vi sconfiggerò con la mia velocità.

Daspa si lanciò a capofitto, lanciandosi in un affondo al collo del cavaliere nero.

Il cavaliere sorrise dietro al proprio elmo.

Daspa si trovò ad affondare nell’aria lasciata libera dalla schivata del cavaliere, che aggiratolo, lo decapitò in un secondo con un preciso fendente alle spalle all’altezza del collo.

-Non c’è alcun vanto nel morire concedendo al proprio avversario un vantaggio.

Il cavaliere si rivolse al paggio.

-Mi dispiace per questa seconda carneficina, ma come potete ben comprendere io ero semplicemente qui a farmi i fatti miei. Proprio come l’altra volta però, non per ordine ma come gentile richiesta, vi chiederei un compenso in denaro per il servizio svolto.

Il paggio pagò nuovamente.

Tornato al Castello del Duca Lunare raccontò ai nipoti del Duca cosa era successo per filo e per segno, e cercò di dissuaderli questa volta da ulteriori propositi di vendetta. Ci tenne a spiegare che le abilità del cavaliere nero erano assolutamente non comuni, e che non sembrava un avversario normale, sicuramente non alla portata di una manica di trentenni che seppur numerosi, non avevamo l’esperienza bellica di padri e nonno.

-Quel che abbiamo del nostro è la nostra gioventù. Siamo uomini in piene forze.

-Quel mostro sanguinario ci ricompenserà col suo sangue, per il danno arrecato alla nostra famiglia.

-È nostro dovere vendicare la nostra famiglia. Non potremmo in ogni caso gestire i loro fantasmi qualora decidessero di perseguitarci per via della mancata vendetta.

-L’errore dei nostri padri è stato quello di affrontarlo separatamente. Un mostro così scorretto va affrontato con scorrettezza.

-Giusto, giustissimo! Lo attaccheremo in nove tutti insieme. Non avrà scampo.

I nove nipoti erano figli dei tre fratelli da poco morti. Condividevano i difetti dei loro padri, ma non ne avevano alcuna virtù.

Se ne infischiarono delle parole del paggio e si recarono infine, insieme a lui, presso il luogo in cui era accampato il cavaliere nero.

Non ci fù tempo per convenevoli e discorsi. Caricarono tentando di sfruttare la sorpresa. Il più iracondo dei nove, Mezzofusto, provò a caricare da cavallo il cavaliere nero, solo da poco svegliatosi. Il cavaliere colpì il cavallo sul fianco, facendolo imbizzarrire e lanciarsi in carica contro un albero, rovinando in terra e rendendo Mezzofusto eutanatizzabile.

I restanti otto affrontarono il cavaliere nero in terra, consci del fatto che avrebbero dovuto collaborare per averne ragione.

Il cavaliere nero non poteva tirarla per le lunghe. Puniti sulla gola i primi due, gli altri si infransero nelle rispettive proprie paure. Il cavaliere nero sentiva la pietà pulsare nel proprio cuore. Proprio non se la sentiva di strappare quelle ulteriori vite per aggiungerle alla propria montagna mentale costruita coi cadaveri di quanti aveva ucciso. Tuttavia sapeva se che avesse esitato, quelli ne avrebbero approfittato. Si lanciò quindi a capofitto, per dare a ciascuno di loro una buona e veloce morte. L’ultimo rimasto, Gianlimone, chiese pietà. Disse che avrebbe lasciato la famiglia e sarebbe sparito. Disse testualmente:

-Muore qui in questo campo di battaglia il mio onore oggi, ma non farmi morire come uomo, te ne prego. Lasciarmi respirare ancora un poco. Fammi fuggire.

Donò al cavaliere nero armi ed armatura e fuggì. Il cavaliere nero non ebbe di che protestare.

Aiutò Mezzofusto a volare in cielo.

Guardando i corpi disse al paggio: -Con tutto questo sangue chissà che floridi alberi da frutto verrebbero fuori in questa radura.

Il paggio versò il corrispettivo.

Tornato al castello raccontò che il corpo di Gianlimone era stato mangiato dal cavallo del cavaliere nero, per giustificarne l’assenza e per non farlo passare per un vile.

Disse inoltre che era stato un grosso errore del gruppo dei nove perservare in quel proposito di vendetta.

I ventisette figli dei nove nipoti del cavaliere lunare erano estremamente addolorati per la morte dei loro padri, ma al contempo erano consci dell’effettiva lassezza morale e del basso valore dei loro padri.

Adolescenti o poco più, decisero che si sarebbero recati tutti insieme dal cavaliere nero, dopo essersi consultati tra loro, senza restituire nessuna informazione circa le loro reali intenzioni.

Le madri, le sorelle, le nonne, le zie e tutte le varie ramificazioni della famiglia piansero la loro partenza. Con la loro dipartita la casata si sarebbe definitivamente estinta, Qualcuno dei 27 aveva già dei figli, ma senza padri, e con una casata in rovina, i pargoli, eredi residuali, sarebbero certamente finiti male, col vuoto di potere insidiato da qualche famiglia di secondo livello che sicuramente si sarebbe approfittata della situazione. Gli eredi diretti indifesi sarebbero diventati facilmente trucidabili.

I ventisette, infine, sempre accompagnati dal paggio, si presentarono dal cavaliere nero, che li accolse calorosamente:

-È bello questo gioco della vendetta, ma siete troppo giovani per farcela, pur affrontandomi in ventisette. Anche se voi aveste ottantuno figli in tutto, tre per ciascuno di voi, dopo la vostra dipartita ci vorrebbero almeno altri quindici anni per far si che mi possano affrontare decentemente. Fra quindici anni io sarò sicuramente morto, quindi può darsi che questa faida finisca qui e oggi. Sarà la mia stessa vecchiaia a vendicarvi.

Il nipote di Ramaruta, tale Sconsapevole, guidò il gruppo dei ventisette, facendosene portavoce:

-Abbiamo seppellito i propositi di vendetta, insieme a quelli dei nostri padri e nonni. L’onore è importante come il sangue, ma la sopravvivenza del casato vale più dell’onore del casato. Non lasceremo le donne del casato diventare preda di uomini rapaci provenienti da casati da quattro soldi. La nostra richiesta è ben diversa. Salveremo la famiglia larga.

-Quindi non siete qui per farvi macellare tutti insieme mentre cercate di piantarmi una spada nel corpo?

-Al contrario. Siamo qui per chiedervi di seguirci al Castello, e divenire maestro d’armi del nostro Castello. Avreste una casa e la considerazione degli abitanti di tutto il borgo.

-Ed il risentimento di quanti piangono le morti dei vostri genitori, nonni e bisnonno?

-Non importa nulla. Il paggio ci ha detto che non siete mai stato sleale, e che vi siete in fin dei conti sempre limitato a difendervi, lottando unicamente per mantenere l’interezza del vostro corpo. Accettate quindi la nostra proposta?

-Posso accettare. Ma vi propongo un altro tipo di duello, quello di cercare di comprendere l’insegnamento morale dietro tutta questa faccenda. Per chiarezza vi dirò che avete tentativi infiniti, ma nell’arco di tre giorni probabilmente cambierò aria per un po’, in ragione della mia natura di cavaliere errante.

I ventisette si accamparono e ragionarono lungamente sulla faccenda.

Il paggio rimase in disparte, intristito per quello che era successo fino a quel momento, ma anche rasserenato per l’inaspettata svolta prodotta dalla sete di discontinuità di questi giovani.

Ci provarono, ci provarono davvero a dare un senso a quelle morti:

-Insegna che la vendetta non porta a nulla di buono.

-Insegna che inseguire la gloria è spesso pericoloso e non porta a nulla di buono.

-Insegna che l’esperienza maturata su un campo di battaglia supera il valore degli equipaggiamenti.

-Insegna che un titolo nobiliare non rende un uomo più valido d’un altro solo sulla base del titolo stesso.

-Insegna che un uomo che non ha paura della morte non è ricercato da essa.

-Insegna che un uomo che non ha nulla da difendere può agire in totale libertà ed essere quindi maggiormente efficace.

-Insegna che agendo secondo virtù ed etica si viene infine ricompensati.

-Insegna che l’esperienza, fintanto non viene intaccata la memoria, è davvero un tesoro.

Vennero formulati questi ed altri numerosi tentativi di interpretazione della vicenda nell’arco dei primi due giorni.

All’alba del terzo giorno i ragazzi si arresero e chiesero di poter avere l’aiuto al paggio.

Il cavaliere acconsentì.

Il paggio indovinò a colpo sicuro, limitandosi a dire: -Tutta questa faccenda insegna solo che… Al cavaliere nero non gli devi cacare il cazzo.

Tutti i giovani cominciarono a ridere, e rise lungamente anche il cavaliere nero. Quelle risate, in maniera assolutamente innaturale e insensataa, riuscirono ad attenuare il ricordo di quella breve ma sanguinosissima faida.

Il cavaliere nero divenne infine maestro d’armi, preparando alle arti della guerra ciò che rimaneva della progenie del cavaliere bianco. Gli appartenenti alla linea di sangue femminili (i figli delle sorelle della progenie del cavaliere bianco) decisero di chiamare la linea di sangue cadetta “cavalieri della luna nera” cercando sintesi tra il loro sangue e la vena culturale appresa dal cavaliere nero.

Vissero tutti, quindi, alla fine, felici e contenti, seppur nel contesto di un periodo storico in cui duelli e fatti di sangue erano circa all’ordine del giorno.

Non proprio buoni: il soggetto della seconda stagione.

La televisione pubblica alla fine aveva scaricato Capitetti.

-Lei non capisce proprio, non vuole capire. Aldilà del fatto che il progetto possa essere per qualche verso anche interessante, lei va contro delle chiare scelte aziendali.

-Ma io ho cercato di raccontare la realtà quotidiana di questi ragazzi, e quello che succede in un contesto sociale di abbandono.

-Lei propone una lettura estremamente eversiva del problema. Lei fomenta rivolte. C’è troppa violenza, c’è troppo odio, c’è discriminazione al contrario. Non lo capisce?

-Lei è solo un borghese. Maschio, caucasico, cattolico, abile. Non può capire il dramma della discriminazione.

-Lei è solo un cretino invece, e probabilmente il dramma della discriminazione può capirlo meglio di me in funzione del suo essere un completo mentecatto. Sulla rete nazionale, su questa rete, abbiamo già trattato il tema della diversità, ma coi colori e la delicatezza che si confà a queste tematiche. I ritardati vengono descritti come buoni e genuini, e ci devono essere degli adulti maturi che li guidano e li aiutano, e degli adulti figli di puttana che invece provano a fregarli. Il ritardato può, in qualche caso, farcela di propria sponte, ma è ovvio che poi per risolvere la faccenda in toto debba venire aiutato. È giusto, è istruttivo, è rassicurante. Lei invece è un impiastro.

-La smetta di chiamarli ritardati, qui l’unico ritardato è lei.

-Capisco bene il significato di quell’adagio che dice che un laureato in ingegneria che di professione non fa l’ingegnere ha qualcosa di losco da nascondere. Ora se ne vada. Tenga presente che lei non lavorerà più per noi, né ora, né mai.

Capitetti se ne andò, contento di essersi tenuto la propria dignità e di essersi scrollato di dosso la costrizione del dover annuire obbligatoriamente al suo committente.

La rete televisiva direttamente concorrente si dimostrò decisamente più interessata al progetto, ma proponendo tutta una serie di modifiche.

-Vede Ingegnere, a noi interessa dare un’idea di questi ragazzi di estremo dinamismo. Ok, ritardati nella vita di tutti i giorni, ma che ne so, molto bravi ad usare il computer, o dei maghi dei videogames, o dei pianisti eccezionali che non si sanno legare le scarpe, o perché no, delle teste d’uovo in grado di riformare il sistema fiscale italiano con una mossa tipo uovo di colombo, eggsplosive! Insomma, vorremmo dei ragazzi maggiormente inseriti nel sistema liberista, bravi col marketing, col turismo, con l’attrarre investimenti. Non tanto uber-down, quanto piuttosto smart-down, o addirittura top-down…

-Ma quindi, come si può coniugare il soggetto che ho scritto con quello che voi richiedete?

-No vabbè, un po’ bisogna riscriverlo, un po’ bisogna aggiustarlo. Però ecco, io il soggetto guardi che gliel’ho letto per bene. Per esempio Marlboro invece di fare le rapine ai tabacchini potrebbe gestire una sala scommesse. Ecco, lui invece di malmenare i ragazzi di destra coi suoi compagni di giuochi, potrebbe invece aprire una associazione con questi ragazzi di destra, che poi sono anche tanto impegnati col volontariato, mi segue?

-Ma la linea narrativa vedeva un progressivo divergere dal mondo del volontariato, in favore invece di una deriva action-rivoluzionaria.

-Mannò ecco, il messaggio che noi vogliamo mandare è quello di un’integrazione, sfruttando gli strumenti che la modernità ci fornisce. La questione violenza, beh, quella, poi vediamo. Noi Marlboro lo vorremmo più con dei grossi occhiali da vista, camicia a quadri nei pantaloni, bretelle, e bravissimo a fare dei grafici con excel, con tutte le varie macro del caso. Poi per carità, nelle scene in esterno in cui interagisce con i suoi amici potrebbe anche avere un po’ di brillantina, ed una bella maglietta di appartenenza politica, tipo Decima Mas (X-Mas). Mi segue?

Capitetti capì l’inganno. Ci teneva al fatto che il suo sceneggiato venisse prodotto, ma aveva anche ben presente gli interessi di quell’azienda, e la sua particolare abilità nel livellare qualunque prodotto ai bassissimi standard del pubblico. Niente di più di quello che la media del pubblico poteva capire. Già immaginava questi ragazzi ballare in un night club con decine di prostitute, in un lunghissimo inno agli Ottanta, in cui sarebbe stata compressa una morale di ritorno propria di quel conservatorismo di facciata, del tipo che le falene che troppo si avvicinano al fuoco finiscono con il bruciarsi. Un po’ nerd, un po’ fascisti, un po’ intellettuali da quattro soldi, un po’ a giocare con una di quelle macchinette per contare i soldi. Temeva lo snaturamento totale dello sceneggiato, che sarebbe stato il funerale dell’idea che c’era dietro quel progetto.

Tentò infine con il nuovo canale di distribuzione, quello degli sceneggiati in streaming.

-Allora, glielo specifico subito, ci stanno alcune modifichine da fare, ad esempio non mi pare che siano ben rappresentate all’interno del progetto le minoranze sessuali e quelle etniche, ma questi sono puntini sulle i, i nostri sceneggiatori ci mettono poco ad inserire un po’ di bisessuali o a trovare personaggi secondari o comparse di tutti i colori. Per il resto il progetto ci piace molto. Si tratta solo di aggiungere un po’ di meltin’pot e di United colors of Benetton, quella roba là insomma.

Capitetti da una parte era contento, ma dall’altra temeva le consuete pressioni e forzature.

Venne rassicurato:

-Io ho capito bene il messaggio che c’è dietro il suo progetto. La lotta per l’emancipazione, la diversità come ricchezza, la forza dell’amicizia, del gruppo, l’ascesa di chi non ha niente da perdere. Per Aspera ad Astra! Ci mancherebbe.

-Immagino che però a questo punto ci sia un “ma”.

-Difatti, difatti. Come forse saprà la nostra piattaforma sforna mensilmente molti sceneggiati, dei più differenti generi. A differenza dei canali statali o di quelli privati, i nostri prodotti sono diretti specificamente ad un pubblico giovane, un pubblico che se ne fotte abbastanza dei “grandi temi etici” e dei grandi “tabù” che solitamente vengono imposti alle produzioni cosiddette standard. A noi interessano prodotti che risultino nuovi, entusiasmanti, e che facciano rimanere un po’ sotto il pubblico, tipo le sigarette, la cocaina, l’eroina, etc. Prodotti di consumo che diano dipendenza, e che facciano sottoscrivere abbonamenti.

-E quindi?

-E quindi ce ne frega relativamente il giusto della qualità, delle serie antologiche, della perfezione dell’opera. Ci interessa lasciare spiragli, per continuare a costruire storie. Qualche personaggio muore per far emozionare il pubblico, qualcun altro campa. Gli amori che devono sbocciare non sbocciano mai del tutto, a causa di qualche fattore esterno; sia chiaro, non nella prima stagione almeno. Deve rimanere un retrogusto di incompiuto, per potere ricamare secondariamente. Vanno lasciati spazi alla speculazione, così che il pubblico possa discuterne estensivamente su internet, producendo traffico e pubblicizzando ulteriormente il prodotto. Si deve creare un interesse per la fiction che sia superiore a quello per l’attualità. Vendiamo sogni, proprio come qualsiasi spacciatore.

Il delegato se la rideva parecchio e poi continuava ad incalzare:

-Veniamo al punto, ci interesserebbe già da adesso una seconda stagione, perlomeno come impianto narrativo. Poi non si preoccupi del resto, la questione sceneggiatura la risolviamo noi, abbiamo un sacco di bravi autori e di altrettanti bravi programmi per computer che scrivono in automatico i dialoghi. Siamo all’avanguardia. Lei ci deve solo restituire la sua visione di come procede la trama principale. Agli amori e ai pruriti sessuali della banda dei “non proprio buoni” ci penseranno i nostri stagisti; sono tutti giovani e pieni zeppi di ormoni, verranno fuori delle belle sottotrame…

-Se la mette così, va bene.

L’azienda fornì a Capitetti un assegno per tirare avanti qualche mese. Gli dissero che gli avrebbero corrisposto il resto nella fase di produzione. Aggiunsero che avrebbe avuto un certo controllo dell’opera, ma che avrebbe dovuto rispettare le scelte etiche dell’azienda rispetto al tema dell’inclusione.

Non appena giunto a casa ricorse nuovamente al medesimo cocktail di caffè, zucchero ed olio, che aveva utilizzato durante la prima stesura, portando questa volta lo zucchero a saturazione.

Assunse anche un paio di compresse di un antidiarroico di una nota marca, per evitare sgradevoli interruzioni da decollo colico.

La seconda stagione sarebbe dovuta cominciare dove era finita la prima. Il traghetto al tramonto, con Marlboro che saliva su una delle panchine esterne del ponte e cominciava la sua arringa:

-Fratelli e sorelle oggi facciamo la storia. Ci troviamo finalmente uniti davanti a questo tramonto, che per noi però è l’alba di una grande battaglia. Dovremo essere veloci come le volpi o le faine che scannano i polli nei pollai. La libertà che ci apprestiamo a mordere potrebbe essere uno di quei bocconi dolci che diventano amari in un secondo momento, ma questo dipenderà dalle nostre capacità. Non ci possiamo permettere leggerezze, e se mi permettete, non possiamo permetterci di agire da ritardati.

Sarebbe seguito un lungo piano sequenza che da una parte avrebbe presentato i nuovi acquisti della seconda stagione del gruppo dei “Non proprio buoni” e dall’altra sarebbe stato funzionale al descrivere il misto di sorpresa e giubilo dei “cosiddetti normali” che applaudivano Marlboro senza capire il reale significato del suo discorso, cioè il fatto che si trattasse di una sorta di dichiarazione di guerra.

-Per troppo tempo siamo stati sfruttati. Per troppo tempo siamo stati ostaggio degli assistenti sociali o dei servizi di igiene mentale. Per troppo tempo ci hanno chiamato ritardati, ci hanno fatto l’elemosina con dei lavoretti da quattro soldi. Per troppo tempo abbiamo sentito sulla nostra faccia quelle che sembravano carezze, ma che erano un modo caritatevole di qualche “cosiddetto normale” di apporre sulla propria giacca qualche gagliardetto da pubblicità progresso. Noi non vogliamo carità, non vogliamo benedizioni, non vogliamo la pietà. Vogliamo l’indipendenza, il diritto di essere liberi, di coltivare la terra, l’auto-sostentamento, vogliamo il diritto di riprodurci in un territorio che sia il nostro.

I nuovi ed i vecchi affiliati avrebbero applaudito con forza. I cosiddetti normali avrebbero cominciato invece ad essere perplessi e confusi.

-Quelli che ci danno ordini tutti i giorni, i “cosiddetti normali”, sono gli stessi che rubano i soldi delle tasse e che fanno ogni giorno nuove guerre. Noi non vogliamo essere confusi con loro. Il nostro Stato sarà pacifico, ci limiteremo a difendere i nostri confini in caso di invasione. Il nostro Stato sarà la casa per quelli come noi che non tollerano più di vivere in un mondo dove non sono rispettati. Dimostreremo al mondo che non siamo dei pagliacci.

Sul ponte ci sarebbe stato un gran levare di voci e di sigarette accese, per rimarcare il concetto di autonomia, e di intolleranza verso l’ambivalente e manipolatoria morale di chi li aveva fino a quel punto tenuti in pugno.

-Ci soffiamo il naso con la vostra morale a doppia mandata.

Avrebbe riecheggiato Asso: -Anzi, ci puliamo il culo!

Ulteriori risate, ulteriori fermenti, un fremere di bollenti spiriti, un frinire di parolacce.

Articolate prese di posizione urlate un po’ da tutti:

-Il culo ce lo puliamo da soli!

-Abbiamo il diritto di fumare sigarette.

-Se mi accarezzate ancora la testa vi faccio ingoiare i denti.

-Meglio un cromosoma in più che un cromosoma in meno.

-Servirà la cenere per concimare i campi.

-Per fare la cenere, ci sarà bisogno del fuoco.

-Veniamo dal basso, ma voliamo alto.

-Meglio un giorno da trisomico, che cento da impiegato.

-Meglio faine che cani da caccia!

-Viva Che Guevara, viva la Repubblica delle Rose, viva il Sessantotto.

Gli addetti alla sicurezza della nave presero ovviamente sottogamba quei segnali.

-Ma guarda come si divertono con poco. Vorrei essere pure io come loro.

-Non esagerare però.

Alle ore venti sbarcarono. Il piano era di dividersi allo sbarco per radunarsi poi in prossimità degli obiettivi specifici: il municipio, il comando dei carabinieri, il comando dei vigili, ed infine gli uffici di Canale Elba, la televisione locale.

Erano dotati di armi di fortuna, quasi nessuna arma da fuoco, prevalentemente mazzette, cacciaviti, coltelli, martelli, ed altri tipi di arma da taglio, da punta o contundenti. Armi bianche come i loro pallidi visi.

Durante i mesi di collaborazione online e di costituzione del movimento, Marlboro e gli altri avevano istruito i loro accoliti con dozzine di tutorial video, dove l’esaltato di turno illustrava tecniche di auto-difesa o di franca aggressione. Maestri di arti marziali canonici, o classici buttafuori. Li chiamavano “i grandi maestri di Youtube”. Stimavano questi guerrieri moderni per la condivisione della loro saggezza, ma sapevano che al momento giusto sarebbero stati in grado di affrontare anche loro, qualora si fosse reso necessario per la causa.

Si raggrupparono nei punti di raduno e fecero irruzione. Marlboro comandò il contingente principale, quello che avrebbe fatto irruzione nel comando dei carabinieri. Citofonarono, e si aprì il cancello. Il piano, nella sua relativa semplicità, prevedeva di scardinare il sistema sfruttando tutti gli stereotipi relativi alla sindrome di down. Era difficile sospettare di quei faccioni così associati alla benevolenza e all’inoffensività.

Il cancello si aprì. Gli agenti all’interno del comando si trovarono fortemente perplessi nel comprendere la situazione. Una quarantina di ragazzi disabili, armati di armi di fortuna, erano entrati nel comando.

Il loro capo con una bandana rossa in testa declamava in modo sostenuto:

-Deponete le armi. Qui ora comandiamo noi. Ogni resistenza causerà uno spargimento di sangue innecessario. Lasciateci quello che chiediamo, e vi lasceremo andare in pace.

I carabinieri nel comando durante il turno notturno erano in netta inferiorità numerica, e quasi tutti al di sotto dei trent’anni. Tutti relativamente giovanili, sfoggianti dei doppi tagli alla moda. Caddero a piedi uniti nella trappola del pietismo frammisto alla facile battuta.

-Che cazzo è? Scherzi a parte? Dove sta la telecamera?

Mentre se la ridevano di gusto vennero immobilizzati e legati. Non ci furono vere colluttazioni. Erano davvero convinti di essere vittime di un qualche scherzo televisivo. Praticamente collaborarono, ma per il motivo sbagliato. Ci misero una buona mezz’ora a realizzare che non c’era nessuna troupe televisiva nascosta. Continuarono per tutta quella mezz’ora a fare battute simpatiche, convinti di andare davvero in onda, cercando allo stesso di tempo di figurare come ragazzi svegli che non avevano abboccato allo scherzo.

Al contrario i vigili opposero maggiore resistenza al gruppo capitanato da Asso, e questi si trovarono a dover fare uso della violenza. Il tutto si concluse senza morti, ma con alcuni feriti sia tra i vigili che tra i ragazzi. La municipale si dimostrò, proprio come sulla cronaca locale, una forza di polizia dal grilletto facile.

Disse Asso: -Le nostre ferite sono reali, così come il sangue che scorre da esse. Ma una rivoluzione non si fa solo a colpi di proclami.

Il municipio e la stazione televisiva vennero presi senza grosse difficoltà, con resistenze minime da parte degli inservienti che li presidiavano.

Successivamente alla conquista dei punti strategici cominciarono le incursioni nella città, volte a seminare il caos e a provvedere allo sgombero; molti dei civili trovati per strada, sotto minaccia, vennero fatti concentrare nel porto.

I ragazzi erano molto seri. Il danese, davanti ai civili radunati al porto, si fece portavoce delle loro istanze:

-Non ci servono degli ostaggi. Al primo traghetto in arrivo dovrete lasciare l’isola. Chi non lo farà verrà gettato in mare con divieto di riapprodo. Diversamente, Nettuno sarà il vostro boia.

Durante la notte, all’interno dell’Isola, si diffuse la notizia del “colpetto di Stato”. Vennero contattati i membri delle forze dell’ordine ubicati sull’isola ma fuori servizio.

A quel punto la trama sarebbe dovuta proseguire seguendo una nottata ricca di trambusti e piccoli conflitti, con un certo numero di ragazzi uccisi dai cani sciolti della polizia o da qualche altro residente col grilletto facile.

Gli stessi residenti sarebbero stati i più rigidi ad opporsi all’invasione dei “Non proprio buoni”. Mentre si avvicendava la conta dei caduti da entrambe le parti ci sarebbe stata la dichiarazione d’indipendenza, fatta da Marlboro congiuntamente sui social media e su TeleElba, sui testi originali scritti con la collaborazione del Danese:

-Ciò che noi chiediamo in quanto libera associazione di ex cittadini italiani è l’esercizio di potere ed auto-amministrazione sul territorio dell’Isola d’Elba. Ci dichiariamo indipendenti rispetto allo Stato Italiano, e dichiariamo la nascita di una monarchia, basata sul lavoro, sul turismo, sulla pesca e soprattutto sull’agricoltura. Ci dichiariamo patria di tutti i trisomici del mondo e disponibili ad accogliere tutti gli esuli che vogliano vivere una vita basata sull’indipendenza dal pietismo dei “cosiddetti normali”. Se ci attaccherete risponderemo con forza. Quest’isola, inoltre, da ora in avanti verrà detta isola del Ventuno, o in alternativa, l’isola del Punteggio pieno del Blackjack.

Dietro Marlboro campeggiava il blasone dei “Non proprio buoni” raffigurante le tre carte francesi: il re di picche, il sette di picche e l’asso di picche.

Capitetti considerava che il soggetto scritto fino a quel punto potesse coprire i tre quarti abbondanti della stagione, da sceneggiare praticamente nel contesto di un’unica notte, restituendo un’accelerazione narrativa che avrebbero gradito soprattutto i giovani, drogati di emozioni forti e ritmi serrati. Era certo che gli sceneggiatori sarebbero riusciti a valorizzare il contesto urbano e naturale dell’isola, per inserire assalti, barricate, scontri leggeri, ovviamente qualche tradimento, qualche sotto-intrigo, ed atteggiamenti ambivalenti da parte degli Elbani, una cui frangia avrebbe potuto contro i propri stessi interessi accettare le pretese dei “Non proprio buoni”.

Propose tuttavia diversi possibili finali:

-Finale numero uno: Simil-isola delle rose, ma più pulp.

All’alba l’isola veniva raggiunta dalle motovedette di Finanza e Guardia Costiera. L’intero gruppo dei “Non proprio buoni” veniva rapidamente sottomesso, con modalità tuttavia abbastanza cruente. Al termine della risoluzione però, il clamore mediatico generato avrebbe acceso numerosi focolai di emancipazione della popolazione trisomica, in tutta Europa e nel resto del mondo. Prima dell’epilogo Marlboro sarebbe stato crivellato da mezzo centinaio di proiettili, mentre percuoteva con un tubo metallico un finanziere, diventando sostanzialmente il Che Guevara della sua causa.

-Finale numero 2: Soft a basso contenuto di violenza.

Dopo aver finalmente ottenuto il controllo dell’Isola i giovani si preparavano ad affrontare l’intervento militare, il quale tuttavia veniva fortemente osteggiato dall’importante pressione mediatica generatasi dopo la diffusione virale del proclamo di indipendenza registrato da Marlboro. Più nazioni riconoscevano a sorpresa, ed in via ufficiale, la liceità della sovranità richiesta dai “Non proprio buoni”. Si generavano i presupporti per una crisi di governo, a seguito delle differenti disparità di veduta che si erano venute a creare all’interno del Governo Italiano, rallentando l’eventuale intervento. Israele e la Francia inviavano aiuti economici all’isola del 21, e lo Stato Italiano era costretto a sbloccare le partenze da Piombino dei numerosi giovani Down Europei che intendevano stabilirsi sull’Isola. Marlboro veniva infine ufficialmente incoronato Re dell’Isola, ed aveva inizio l’esistenza della pacifica monarchia dell’Isola del Ventuno.

-Finale numero 3: Agli Elbani non gli devi cacare il cazzo.
I residenti, auto-organizzati, e con limitato sostegno da parte delle forze di polizia presenti sull’Isola rispondevano alla violenza con violenza, in una rapida escalation che vedeva i giovani infine battuti, e molti di loro uccisi, in modo particolare i più facinorosi tra di essi, e praticamente tutti i membri del nucleo originale.

-Finale numero 4: Il piano Z, rimarrà soltanto cenere.

I ragazzi messi in difficoltà dagli isolani e dalle forze di polizia stanziate sull’isola, alle prime luci del mattino ricorrevano all’extrema ratio. Appiccavano numerosi incendi sull’isola, sia tra gli edifici che nella selva. All’alba, tinta di rosso, l’intera isola risultava in fiamme. Sarebbe seguita una carrellata sui cadaveri di persone ed animali carbonizzati. Si sarebbero spesi non pochi quattrini per le riprese dei Canadair che raccoglievano l’acqua per domare gli incendi. L’esito complessivo dell’impresa dei “non proprio buoni” sarebbe consistito in un miserabile fallimento. Il destino dei protagonisti rimaneva ignoto, ad eccezione di quello di Marlboro, che agonizzante a causa di un colpo di pistola ricevuto in addome, accendeva la sua ultima sigaretta da un tizzone ardente ai piedi di un edificio, e mentre inspirava la sua ultima boccata di fumo, immaginava di venire incoronato re dell’Isola.

Non proprio buoni.

Il soggetto dello sceneggiato era stato respinto, in ragione della sua scorrettezza politica.

L’argomento era un tabù inaffrontabile, inerente la malattia e la diversità, affrontato da un punto di vista, peraltro, totalmente sbagliato o al più stupidamente provocatorio.

Lo sceneggiatore assumeva la sindrome di Down come una sorta di sottocultura identitariamente forte, e lo faceva raccontando la storia di una baby gang di down emancipati, che si organizzavano per seminare il terrore nel loro quartiere.

Denominati nel quartiere come i buoni a nulla, o i poco di buono, preferivano definirsi come il gruppo dei “non proprio buoni”, epiteto che costituiva anche il nome provvisorio del soggetto della serie.

L’autore di questo soggetto, tale Capitetti, ingegnere di una ingegneria minore, aveva difeso così il suo sceneggiato davanti al direttore di rete:

-Basta con queste serie tv buoniste, dove dei down viene narrato solo il buonismo, la semplicità e l’essere naive. Io penso che il pubblico italiano sia finalmente pronto a vedere i down da una prospettiva a 360 gradi. Una serie del genere potrebbe essere universale, e racconterebbe la diversità al di fuori di un’ottica paternalistica e confortevole, parlerebbe piuttosto di una diversità vissuta in maniera attiva e difensiva. Basta con questa storia dei down vittime di bullismo, il pubblico ha bisogno di una nuova visione dei down, magari proprio nel ruolo di bulli di quartiere. Il pubblico forse è pronto per vedere dei down chiaroscurati, in cui non è scontato che abbiano bisogno di essere difesi dal catechista di turno, o dal mezzo comunista con la maglia della Bandabardò.

-Io spero che lei si renda conto del guaio in cui si sta cacciando ed in cui ci vorrebbe cacciare, e soprattutto del fatto che diventa sempre più evidente la sua completa perdita di senno.

-Lei non capisce, questa serie potrebbe essere diversa da tutte le altre che si vedono nella televisione italiana. Porterebbe un racconto più simile a quello che avviene in America, dove le minoranze sono viste al di fuori di un’ottica compassionevole…

-Ma non si tratta di una minoranza, si tratta di una malattia. Lo vuole capire? Cosa vuole fare? Alimentare un’ondata di intolleranza verso persone malate? Accumulare strati di denunce delle associazioni di genitori con figli down? Vuole fare cadere il governo alzando questo polverone? Si rende conto che è un progetto che non ha senso?

-Senta, ma se io invece trasformassi questi down in dei cingalesi?

-Già molto meglio, ma bisognerebbe aspettare il cambio di governo, anche solo prima di pensare di poterla produrre.

Capitetti se ne andò a casa sconsolato e sconfitto.

Erano ormai alcuni anni che la rete pubblica non produceva alcun suo progetto. Tuttavia gli erano state corrisposte delle somme minime, rispetto alla scrittura di alcuni noiosi sceneggiati simil-sitcom: la Famiglia Ruzzoni, i coniugi Smeg, La famiglia Rusticazzi; quasi sempre sitcom a tema coniugale, più basate sulla bizzarria insulsa dei personaggi, che non sui classici equivoci all’italiana, copie di copie di spazzatura televisiva degli anni ottanta-novanta. Alcune delle idee di quei soggetti erano state cannibalizzate ed inserite forzatamente in altre sitcom o fiction poi andate effettivamente in onda.

Capitetti era certo del fatto che la sua verve creativa era ormai un pozzo esaurito, collocato in un’area già di per sè siccitosa, ma pensava che quell’idea potesse essere l’unica cosa che gli restava da dire. Credeva davvero nel progetto, aldilà dell’eventuale ritorno economico.

Pensava d’altronde che questo singolo soggetto, anche senza venire davvero poi tradotto in uno sceneggiato, potesse, in virtù del valore eversivo del suo elemento di novità, riabilitarlo al ruolo di sceneggiatore di un certo livello (o “of a certain level” come amava dire lui). Alla fine ciò a cui anelava era solo un minimo di riconoscimento.

Mise un paio di moke sul fuoco, una piccola ed una media, non appena arrivato a casa; le versò in un tazzone ed aggiunse abbondante zucchero ed un paio di cucchiai grandi di olio d’oliva. Quella bevanda per Capitetti era una sorta di pozione, adatta ad attraversare la notte in cui avrebbe scritto quello che per lui era il soggetto perfetto, raffinando al massimo la bozza di quanto avesse fino a quel punto prodotto. In caso di rifiuto della rete avrebbe provato a girarlo ad altri produttori, o addirittura al circuito indipendente, nella speranza di poter vedere la sua creazione prendere vita con attori e scenografie. Per un uomo solo e volontariamente isolato, quel tipo di propulsione creativa poteva rappresentare un motivo sufficiente per continuare a respirare.

La città in cui si svolgeva il racconto non era specificata, sarebbe stata adattabile alle esigenze di budget o dei finanziatori. L’idea però era che si potesse trattare di una città di media dimensione affacciata sul mare, tipo Barletta, Ancona, Pescara, Livorno, Rimini, Amalfi, Catanzaro.

I ragazzi della baby gang si erano conosciuti in una classe speciale durante le scuole medie; avevano stabilito un forte legame. Alcuni di loro avevano una forte identità ed un ruolo specifico all’interno del gruppo, altri erano comparse atte a riempire l’inquadratura ed a restituire l’idea di un gruppo variegato, seppur non ben definito. Si chiamavano tra di loro non con i propri nomi di battesimo, ma con dei soprannomi, ora di animale, ora di calciatori del passato, ora di grandi brand.

Il capo del gruppo si chiamava Marlboro, proprio come la nota marca di sigarette. Da bambino era stato un appassionato di Formula 1, ma aveva trovato il suo mito nelle videocassette registrate dal padre nel periodo Schumacher. Non seguiva i gran premi attuali, ma rivedeva in VHS quelli del periodo 1996-2004. Durante il periodo delle scuole medie aveva difeso spesso i suoi compagni della classe speciale dal bullismo dei ragazzi “cosiddetti normali”, analfabeti di periferia con il culto della violenza ludica. Inizialmente lui ed il suo gruppo avevano preso non poche sberle e subito varie umiliazioni, ma col tempo si erano fatti cocciuti e duri, guidati da un leader coraggioso. La caratteristica che saltava all’occhio vedendo Marlboro sarebbe dovuta essere il suo grosso collo da torello, inserito nel contesto di una fisicità molto compatta, che gli permetteva di atterrare facilmente i suoi avversari, per poi demolirli a forza di cazzotti sul muso. Aveva un naturale carisma da capo, era bonario con i suoi sottoposti, ma coraggioso e spietato verso i loro nemici. Le compagnie rivali erano composte di giovani randagi, avvezzi all’uso di sostanze ricreative ed alla smargiasseria, facili alle rapine ed alle piccole ruberie, in un contesto in cui la polizia da una parte era impegnata con rogne maggiori, e dall’altra ignorava questo sottobosco di antisocialità adolescenziale, partendo dall’assunto che tanto si sarebbero ammazzati tra di loro prima di raggiungere la maggiore età.

Il secondo in capo si faceva chiamare Asso, anche se non era infrequente che gli altri del gruppo lo chiamassero Gradasso, in virtù del suo volersi continuamente autoincensare. Amava truccarsi e gli piacevano parecchio i coltelli. Non fumava sigarette ma masticava in continuazione gomme alla nicotina rubate alle madre. Era scontroso ma amava molto i cani, e soprattutto il suo di cane, Confetto, un Pitbull fuori taglia di cinquanta chili, che tornava spesso utile nella competizione con le altre bande locali. Non c’era storia né per i dobermann che per i pastori tedeschi.

Le uniche due ragazze del gruppo, Orchidea e Cacofonica, avevano un ruolo relativamente dimesso rispetto al resto del gruppo. Erano innamorate dei capetti, in via alternata a seconda del momento. A differenza dei maschi avevano minore necessità di pavoneggiarsi con atti violenti, e fornivano più che altro supporto ai maschi con vari complimenti, come avrebbero fatto delle loro coetanee di un paio di decenni prima. Risultavano abbastanza “anni novanta” anche nelle scelte d’abbigliamento. Probabilmente Capitetti aveva qualche problema a caratterizzare i personaggi femminili, ma spiegava questa cosa a se stesso come un non voler perdere tempo nelle sottotrame amorose, che avrebbero finito con l’enfatizzare troppo le vulnerabilità emotive dei personaggi.

Gli altri membri della banda erano caratterizzati comunque con pennellate comprese tra il vago e lo stereotipato. Sostanzialmente le loro unicità erano costituite da un problema familiare specifico, quale un genitore alcolista, o litigi in casa, o ancora problemi di soldi.

I nomi erano Batistuta, Falco, Arancione, Siringa, Skeggia, Atomico, Cartavetro, Picchio, Spadafora, FocaMonaca, FocaLeopardo, Blu-Betoniera. A questi si aggiungeva Il Danese, anche detto il deputato, che voleva rappresentare invece l’anima intellettuale e riflessiva del gruppo, molto più colto degli altri ragazzi, forniva spesso loro spunti di riflessione, ma spesso veniva ostracizzato in quanto troppo tollerante. Indossava degli occhiali da vista tondi, e gilet colorati. Il suo ruolo era pretestuoso, si prestava semplicemente a fare da contraltare riflessivo rispetto alle decisioni impulsive e machiste di Marlboro. Sarebbe poi toccato al lavoro di sceneggiatura decidere se i due avrebbero trovato una sintesi rispetto alle loro istanze, o se il danese sarebbe stato invece preso a calci in culo come il famoso “Quattrocchi” dei puffi, o come un Trotzky qualsiasi.

La trama generale della serie si apriva come una specie di lento romanzo di formazione, in cui i personaggi partivano come induriti dalle circostanze, ed usavano il gruppo per sentirsi parte di qualcosa, e la violenza come strumento di emancipazione dalla condizione di malattia; attraverso di essa, inizialmente, si allontanavano da quello che era il ruolo di passività che la società gli aveva rigidamente imposto, scegliendo piuttosto di diventare un problema sociale; tuttavia si distinguevano dalle altre bande giovanili per l’avere un fondo etico (era indispensabile che ci fosse una qualche forma di messaggio positivo per poter anche solo pensare ad un passaggio sulla televisione pubblica). Accanto ad una scazzottata coi ragazzi naziskin (razzisti), trovava ad esempio spazio il salvataggio di un gattino, o il furto di qualche cartone di tavernello per il barbone Ruspa, alcolista che spesso consigliava i ragazzi sulle scelte di vita più delicate.

Accanto ad una narrazione più convenzionale che vedeva gradualmente i ragazzi emanciparsi dal bisogno di violenza per tracciare i confini della propria identità, avvicinandosi gradualmente al mondo del volontariato, partiva però una linea narrativa collaterale, che avrebbe poi preso il sopravvento con forza.

Marlboro, il già citato leader del gruppo, all’interno di un percorso volto ad aumentare la propria consapevolezza attraverso lo studio effettuato su internet, aveva trovato uno strambo racconto che parlava della delicata situazione del “popolo trisomico”. Tale racconto, dai tratti sia sarcastici che francamente eversivi, rappresentava una sorta di guida per l’organizzazione di una rivoluzione; parlava di un leader del popolo dei down, il cosiddetto uber-down, una sorta di messia che avrebbe salvato i down dalle catene del pietismo che li attanagliavano. L’uberdown veniva descritto come affetto dalla patologia, ma era dotato al contempo di una intelligenza fulminante e soprattutto della capacità di riunire il suo popolo sotto un’unica bandiera. La bandiera in questione presentava un blasone costituito da tre carte da poker la cui somma era 21. Il suo scopo ultimo sarebbe dovuto essere quello di guidare il suo popolo nella terra promessa, un’isola italiana non meglio specificata, da conquistare col terrore e con la violenza, e dove dar vita ad una comunità agricola indipendente, governata attraverso una monarchia assoluta illuminata.

“È chiaro come il sole che quella che viene definita dalla medicina come una malattia, rappresenti invece un tentativo dell’evoluzione di produrre una nuova specie, l’Homo sapiens bonus. Noi trisomici siamo stati incatenati per troppo tempo da una diagnosi medica, che ci nega lo status di nuova specie. I nostri diritti vengono continuamente violati, insieme alle nostre libertà, additandoci come malati, insufficienti, inabili, handicappati o semplicemente ritardati. Noi ci ribelliamo a questo stato di definizione, e dichiariamo il bisogno di una nostra patria, che noi appartenenti a questa nuova specie chiameremo casa. Aneliamo ad un luogo dove vivere in pace ed in armonia, al riparo dallo sguardo tagliente dei cosiddetti normali, e dalla loro melliflua gentilezza, che cela il più meschino dei disprezzi, quello per ciò che si considera alieno. La vostra tolleranza è disgustosa, noi avremo una nostra nazione, e la conquisteremo guidati dal migliore di noi, un re, un despota, saggio e gentile, coraggioso ma terribile, l’Uber-Down!”

Marlboro ci avrebbe messo poco a capire di essere lui il prescelto. Lui che aveva guidato i suoi amici in quel percorso di emancipazione, avrebbe guidato il suo intero popolo.

La parte finale di questa ipotetica serie tv doveva finire con Marlboro che allontanava gli altri ragazzi del gruppo dalla deriva istituzionale e dal progressivo assorbimento nel mondo del volontariato; al contrario fondava una rete dei ragazzi down su internet, con un programma ben preciso, quello di raggiungere in massa l’isola d’Elba in traghetto. Lì arrivati, armati fino ai denti, avrebbero dovuto scacciare la popolazione locale con le maniere forti e conquistare l’Isola. La prima stagione sarebbe dovuta finire con i ragazzi della crew “Non proprio buoni” che si trovavano a Piombino, finalmente insieme ai ragazzi down provenienti dalle varie realtà italiane, raccattati su internet.

L’ultima inquadratura dell’ultimo episodio sarebbe dovuta essere quella dei ragazzi sul ponte del traghetto, che accarezzavano ciascuno la propria arma, pronti a sbarcare sull’Elba per seminare il terrore e per riprendersi finalmente ciò che era sempre stato loro.

A contorno del nutrito gruppo di ragazzi vi erano i commenti dei turisti diretti all’Elba:

-Ma guarda che carini, così autonomi. Senza accompagnatori poi, sono proprio bravi.

Alla fine della nottata Capitetti, posto l’ultimo punto al suo soggetto, poté finalmente raggiungere il cesso, dopo i numerosi solleciti prodotti dal caffè all’olio.

Una cinesata.

L’apocalisse è quello che c’è già. (Cit. GLF)

Quattro settimane prima della quarantena
-Ma quindi hai paura di questa “apocalisse zombie” che arriva dalla Cina?
-Mah, boh. Quello che ho trovato in letteratura, che poi sarebbero una decina di articoli cinesi, fa passare la cosa come un’influenza, al massimo un po’ più aggressiva.
-Solita roba che uccide quasi esclusivamente anziani e defedati. Anche gli articoli che ho trovato io parlavano un po’ di diffusione e di qualcosa sui sintomi.
-Certo che questi si mangiano di tutto.
-Veramente.
-Alla fine Dio difende i suoi animali più pregiati coi virus migliori, i chirotteri in primis.
-Immagino che questo valga anche per i paesi senza Dio.
-Vabbè, ora non mi ricordo bene loro in che cosa credono, però il comunismo aveva fatto tipo tabula rasa, no?
-Sì, ma chiamalo comunismo…

Alla prima settimana di quarantena.
-I morti italiani sono troppi, non solo rispetto alla Corea, ma pure rispetto alla Cina ed al resto d’Europa. Non si capisce.
-Il contagio è più esteso di quello che dicono. I tamponi sono razionati. C’è tipo un Bias di selezione. È pieno di asintomatici e paucisintomatici contagiosi. Quanto alla Cina poi, si potrebbe dire che stanno facendo i coreani, del Nord.
-È una affermazione alquanto razzista.
-Sì. E forse non si capisce bene che cosa voglio dire.
-Spiegati.
-Sono furbetti, non vogliono fare la figura di merda. Il fatto che l’Europa sia stata lenta a reagire dipende anche da loro.
-Hai deciso di tornare al complottismo dei diciotto anni?
-No, macchè. É solo una di quelle situazioni in cui uno non vuole fare figure di merda e lava i panni sporchi in casa.
-Però?
-Però magari ci hanno capitalizzato sopra, secondariamente. Comunque è gente a cui piacciono i soldi, insomma è chiaro che gli piacciono.
-Cosa?
-I soldi, i soldi. Hanno protetto il mercato, hanno salvato la faccia facendo sembrare di aver controllato il contagio, ed adesso noi Italiani, che restituiamo dei dati epidemiologici tutto sommato veritieri, figuriamo come i classici italiani delle barzellette. Mezze seghe, faciloni, impiastri, alla faccia del miglior Sistema Sanitario Nazionale del mondo, universale, et cetera. A differenza delle barzellette però la prendiamo in quel posto.
-Vabbè, comunque tutte le spiegazioni ormai sembra che valgano poco. Quindi sono tutte ugualmente valide.
-È vero.
-Ma quindi a quanti siamo?
-Trentamila contagi dicono i siti, però c’è quella questione delle morti, no?
-Ah, già. Tremila morti. Quanto dovevamo fare? Era per trenta o per cento?
-Dipende dalla mortalità. Se è davvero l’1%, e da noi non stanno morendo più che altrove, potremmo comunque essere sopra i centomila.
-Comunque come la fai fai, sei complottista in un contesto del genere. La realtà non quadra. Sia negando i dati che puntando il dito. È impossibile non puntare il dito poi. Anche correggendo per il fatto che siamo una nazione di anziani, che la Lombardia è inquinata, che c’è un sacco di mobilità di pendolari interna alla regione, che la gente si ammazza di aperitivi, che la dieta vegetariana rende molliccio il sistema immunitario, e tutto il resto, comunque abbiamo troppi morti.
-I corsi e i ricorsi storici. Prima o poi doveva capitare una cosa del genere.
-Stasera comunque sono andato a correre, non c’era un cazzo di nessuno.
-Come? Sei uscito?
-Eh sì. Per fare attività fisica.
-Andiamo bene.

Alla seconda settimana di quarantena.
Le forze di polizia proprio non ce la facevano a far rispettare il decreto pedissequamente a tutti. Malgrado fioccassero le denunce e addirittura i senza fissa dimora non si facessero trovare in giro alla luce del sole esisteva una certa fetta della popolazione completamente refrattaria alla misura di contenimento intrapresa: gli anziani.
La gente sotto i settanta anni si era rassegnata addirittura a fare cacare i cani in casa. Lo sballo della quarantena, del cucinare in continuazione, di ammazzarsi di porno o di passare le giornate a letto col proprio partner, ancora rendeva possibile il confino domestico. I continui messaggi sui social, i film in streaming, i gruppi uozzap dove non si parlava altro che della cazzo di epidemia e dei dolci. I vari livelli di complottismo stratificati, che ormai venivano snobbati addirittura dal partito populista stesso. La sfiducia dei mercati, l’orizzonte cupo della povertà, della disoccupazione, della decrescita rapida. Il vecchio terzo mondo, ormai emancipato, che ci “terzomondizzava”.
Non c’era forza che potesse però tenere gli anziani in casa. La loro forza era il non rendersi conto. Una totale mancanza di contatto con la realtà, e nessuna paura. Uno dei paesi con l’età media più alta, che vedeva in questi grigi controlla-cantieri schiantarsi contro il nemico invisibile, come i lemming che si lanciano giù dalle scogliere, come gli amanti della roulette russa.
Andare in giro, stare sulle panchine, dire stronzate, ammassarsi nei supermercati, ammazzarsi nei supermercati, intasare le terapie intensive, guardare in faccia la morte con gli occhi vitrei di chi davvero proprio non se ne riesce a fottere un cazzo. Morire da soli, rendendosi conto vagamente di quello che stava succedendo solo negli ultimi due o tre giorni di vita, comunque storditi dalla mancanza di ossigeno.
I poliziotti non avevano il coraggio. Gente che avrebbe fatto ingoiare i denti ad un adolescente per una canna, sentiva tuttavia il cuore ammorbidirsi davanti a quelli anziani, gli stessi che qualche settimana prima si sarebbero consumati i neuroni davanti alla solita routine di Forum al mattino e programmi per lobotomizzati e casalinghe del pomeriggio. Da una parte inermi, e dall’altra però rigidi a sufficienza da non voler cambiare nessuna loro abitudine. Pronti ad affrontare il treno che gli si stava schiantando addosso col sorriso sulle labbra, senza nessuna paura, senza nessuna coscienza. Un esercito di zombie che avevano vissuto abbastanza, e che non accettavano quel cambio di stile di vita imposto dall’alto. Non tanto per una ribellione sostenuta da motivi ideologici, ma proprio perché non era per loro, non ce la facevano. Non si univano ai cori dai balconi, non gli bastava, non era per loro. Quel minimo di socialità fossilizzata che avevano se la tenevano stretta, per quanto non valesse nulla, e per quanto fosse davvero limitata alle chiacchiere da panchina o da alimentari.

Mentre anche le voci negazioniste si appiattivano schiacciate dalla montagna di morti che andava innalzandosi, loro, gli anziani, riuscivano comunque a non vedere quello che stava succedendo. Il piano di contenimento andò a puttane per colpa loro.

Alla terza settimana di quarantena

-Senti ma stai mangiando?
-Certo.
-E cosa?
-Dipende. O amatriciana, o pasta con sugo di tonno, o ragù al gusto nafta.
-Cosa?
-È quello già pronto, ha l’odore del gasolio. Se puzza di gasolio è evidente che almeno un po’ di gasolio dentro ci deve essere. È comunque buono per vivacizzare una caldaia letargica, o se ti si ferma la macchina. L’ho preso sia al gusto contadino che montanaro. Però sta finendo.
-Ma che dici?
-Dai mamma, non rompere le scatole, non faccio la spesa da dieci giorni.
-Ma non dicevi che prende solo gli anziani sta malattia?
-Eh, appunto, alla Coop ci sono solo anziani. E sono bombe settiche.
-In che senso?
-Escono solo loro, e stanno sempre in giro, e gli sbirri non fanno un cazzo. È come cercare di non farsi pungere dalle vespe mentre si usano i vespai come sacchi da boxe, secondo te è possibile? Senza protezioni intendo, senza tute da apicoltore o altro.
-Ma che dici?
-Io non ci posso fare niente.
-Ma che cosa dovresti fare?
-Niente, appunto, sto tirando avanti con le provviste che ho fatto. Che poi non è neanche così male, ormai riesco a fare una pasta decente sotto i dodici minuti.
-Ma se la pasta ci mette dieci minuti almeno per cuocere, e poi devi far bollire l’acqua prima.
-Sì, ma ormai uso direttamente l’acqua calda della caldaia, per fare prima.
-Ma perché devi fare prima? Hai un sacco di tempo libero in casa.
-Sì, ma nel tempo libero faccio altro.
-Tipo?
-Ma tipo gioco alla playstation.
-Ma hai intenzione di tornare a casa, di scendere?
-Penso che sia illegale in questo momento, e comunque potrei avere il virus anche io e non stare facendo sintomi. Preferirei evitare di sterminare mezza famiglia solo perché non mi va di cucinare.
-Ah…
-Vabbè, cercate di non uscire di casa, e non fate uscire neanche la badante. Ah, ma il gatto alla fine ha cacato?

Alla quarta settimana di quarantena.
Il contagio si era largamente diffuso anche aldilà del Nord Italia all’interno della penisola. I numeri facevano paura. Il parlare dell’epidemia però era diventato più palloso dell’epidemia stessa.
La questione pensioni si sarebbe potuta dire cinicamente risolta, ma era comunque subordinata alla sopravvivenza di un sistema economico dietro e di uno Stato, però. Il resto d’Europa non era stato risparmiato, ma se la passavano comunque meglio di noi. Le direttive nazionali erano di tacere i dilaganti casi di violenza domestica, anche gravi, normale effetto collaterale di una quarantena forzata. Non aveva più senso parlare di violenza sulle donne, il problema era un altro, e bisognava parlarne continuamente, come se a forza di parlarne alla fine il virus, stremato dalle chiacchiere, avrebbe potuto valutare la possibilità di andarsene un attimo affanculo.
A me non cambiava poi così tanto. Avevo rinunciato da un po’ alla mondanità, ed in qualche modo l’epidemia mi aveva tolto dall’imbarazzo del dover uscire di casa. I passatempi autistici mi tenevano impegnato, ma non sarebbe durata all’infinito, la primavera che cominciava a fare capolino mi avrebbe fatto impazzire, obbligandomi ad uscire dal mezzo letargo. Gli anziani tuttavia nel nostro paese erano diventati una specie in via di estinzione, e anche molti dei cosiddetti guariti delle prime settimane si erano riammalati. Si faceva un gran parlare del fatto che non ci fosse immunizzazione nei confronti di questo virus, e che potesse mutare e diventare più aggressivo. Non erano mancate le morti in fasce di popolazione sotto i sessant’anni, ed anche qualcuna tra i giovani. Tuttavia non era un’ecatombe, ma c’era il rischio che accadesse. Io personalmente non avevo paura del virus in sé, smettendo di fumare avevo cessato di ammalarmi di malattie respiratorie. Sembravo messo male, ma avevo delle analisi del sangue degne di una cornice in salotto.
Il danno per le aziende era enorme. I commercianti però si sentivano sollevati per il fatto che non ci fossero state interruzioni nella fornitura del metano, cosicchè la canna del gas potesse rimanere tra le opzioni.
Grazie alla droga di stato di questo momento storico, i social, ed in generale ad internet, la gente comunque riusciva a stare placata. Bisognava solo evitare la mole di informazioni e di messaggi inutili, quelli apocalittici, e quelli di speranza, la megalomania, le ultime fronde complottiste ancora rimaste, l’italiano stentato, la sintassi discutibile, quelli che avevano capito tutto, il fascismo di chi si fiondava su quanti non rispettavano la quarantena solo per poter aggredire qualcuno, e tutto il resto che di brutto c’era in quell’umanità compressa.
Capitavano tuttavia repentini cali di banda sulle connessioni. I film si bloccavano spesso sul più bello, la qualità diminuiva, comparivano pixel grossi come piastrelle del bagno. I giochi online laggavano. Scricchiolava, ma tutto sommato ancora reggeva.

Alla sesta settimana di quarantena.

Internet andò a puttane. Non in toto ma divenne pressoché inutilizzabile. Le linee fisse morirono all’improvviso su quasi tutto il territorio, quella mobile divenne congesta e rallentò poiché sovraccarica.
Il sistema non resse più, manco per il cazzo.
Quello scarico schifoso che assorbiva le frustrazioni e restituiva una distorta idea di vicinanza saltò, e lo stato di arresto domiciliare collettivo divenne istantaneamente insostenibile. A che pro cucinare se nessuno si poteva complimentare per tutte quelle torte e quelle paste al forno? Dove erano finite le altre persone con cui parlare e lamentarsi dell’epidemia?
Da un giorno all’altro, successe. La gente cominciò a scendere in strada, i freni inibitori saltarono, la pantomima dell’essere civili finalmente si interruppe, la polizia intervenne.
Io mi trovavo di colpo senza niente da fare. Il computer ed il cellulare non servivano quasi più a niente. Avevo finito tutti i giochi che avevo da giocare. Di leggere non se ne parlava, mi veniva subito il mal di testa.
Era evidente che da lì a qualche mese saremmo falliti, avrei smesso di essere uno che ha scelto di non lavorare e sarei diventato un vero disoccupato, un disoccupato standard di un paese che stava annegando. Non saremmo più stati la generazione dei privilegiati, quelli vissuti senza guerra e senza fame, quelli dei vestiti firmati, dei viaggi in aereo dappertutto, quelli cresciuti senza bombe nelle stazioni, quelli che al massimo erano andati a farsi qualche corsetta inseguiti dalla polizia durante una manifestazione all’università. Ci eravamo dentro, nell’apocalisse, o in qualcosa che gli somigliava, per un virus di merda tipo un’influenza ma più aggressiva, che faceva secchi gli anziani, i quali però a loro volta sembrava non aspettassero altro. Immobili nei giardinetti, aspettando il triste mietitore che raccoglieva le sue canute messi.
Film e sceneggiati apocalittici ci avevano messi in guardia, ma non avrei mai immaginato che sarebbe stata soprattutto colpa dei vecchi e dei cinesi.
Se non altro era l’esperienza generazionale necessaria a renderci in qualche modo protagonisti della storia, soprattutto per noi che avevamo tredici anni durante il G8 di Genova, giusto tre o quattro anni in meno di quelli che sarebbero serviti per farsi ammazzare di botte per manifestare contro la stessa globalizzazione che venti anni dopo ci avrebbe ammazzato, a botte di viaggi aerei intercontinentali a ritmi forsennati, ed in generale alla eccessiva movimentazione di merci e cristiani.
Fu così che allora mi diedi alla macchia anche io, un po’ per noia, un po’ per andazzo generale, un po’ per ritorsione. A causa della quarantena non avevo potuto mettere la bicicletta in cantina. Ovviamente me l’avevano fottuta.

Il giorno in cui venne assaltata la Coop c’ero anche io. La gente era completamente fuori di testa. Un sacco di gioia ed un sacco di rabbia. Una euforia da invasati, da maniaci, da impasticcati, da rito orgiastico, da gente che si è fatta un bello stufato di Amanita muscaria. C’era chi aveva lasciato i denti sul selciato per non farsi portare via della carta igienica. Decisi tuttavia all’ultimo di non partecipare al saccheggio; era sufficientemente soddisfacente godersi lo spettacolo di quel piccolo frammento di occidente civile che deflagrava davanti alla potenza della natura, in grado di vendicarsi di noi fottuti bastardi Homo sapiens, nello specifico: Occidentali Democratici Civili che vivevano in un paese formalmente capitalista del blocco Atlantico.
Un pipistrello mangiato in Cina, con la dovuta dose di fortuna, ci aveva fatto collassare. Una vendetta perfetta; ma i pipistrelli sono abituati a trasmettere virus quando qualcuno li preda, per dirne due: ebola e rabbia.
I cinesi che avevano occultato i loro morti ci avevano fatto sottovalutare la questione.
Le destre che avevano demolito il sistema sanitario nazionale ci avevano reso impotenti.
Gli anziani che avevano deciso di ricongiungersi a Cristo disobbedendo a qualsiasi regola ci avevano condannati.
Gli sbirri che col loro cuore d’oro non avevano tamponato la questione se ne erano lavati le mani.
Gli stessi sbirri che chiudevano gli ingressi della piazza-giardino della Coop e lavavano i denti coi manganelli a tutti i vari invasati che avevano saccheggiato il supermercato. Io rimediai un totale di ben zero manganellate, avevo un certo talento per evitare le mazzate in quei contesti, fin dai tempi dell’università. Mi stesi in una siepe ed uscii a faccenda risolta. Un sacco di sangue e un sacco di patatine, e di cibo diventato spazzatura, che forse qualcuno più tardi, per fame avrebbe raccolto.
Non c’erano cadaveri, ma ci poteva stare. La lezione cinese l’aveva imparata anche l’Occidente: insabbiare tutto il possibile. Il sangue lo avrebbe lavato da terra la stessa azienda che aveva “vinto” l’appalto della sanificazione delle strade.

L’unico dato positivo, egoista ed anche miserabile, era che tutti i miei fallimenti personali, a fronte del fallimento totale dell’Occidente, diventavano davvero poca cosa.

Ottava settimana di quarantena.

Poi sono cominciati i blackout. Il telefono e la televisione rimanevano le principali fonti di informazione. L’utilizzo di internet era diventato sovrapponibile a quello di una posta veloce, inviavi un messaggio e aspettavi qualche ora o anche mezza giornata prima che arrivasse al destinatario, cosa comunque non scontata. L’approvvigionamento di cibo era diventato discontinuo, e c’erano volanti delle forze armate davanti ai negozi rimasti aperti. Il costo dei beni di prima necessità era schizzato in alto: pasta di media qualità oltre i due euro (per il mezzo chilo), merendine di livello a cioccolato ed arancio a 5 euro a pacco, per non parlare poi di frutta e verdura, che io però utilizzavo solo come base per cocktail domestici. Non si sapeva fino a quando le scuole e le attività commerciali non essenziali sarebbero rimaste chiuse. La notte era un po’ un casino, le forze armate facevano il loro, ma il teppismo era dilagante, i furti ed i saccheggi facevano parte della realtà costitutiva di quei giorni, e non erano più appannaggio dei soli antisociali, ma di un po’ tutte le fasce della popolazione.
La situazione generale poteva essere vista come quegli strani esperimenti di ibrido tra l’anarchia ed una dittatura militare. Il colpo di Stato era comunque nell’aria.
Si sperava per il meglio, ci si preparava all’inevitabile peggio, ma con quell’ottimismo super-vitalistico che è figlio della più bieca rassegnazione.
Mentre tornavo dalla spesa, dopo la classica ora di coda, un gruppo di ragazzi aveva circondato un anziano, cercando con cazzotti e calci di sorpassare il virus nella sua eventuale mietitura di vite.
-Testa di cazzo! È colpa di voi vecchi.
-Siete dei coglioni, ma a questo giro la paghi tu per tutti i vecchi come te.
-Tanto a noi giovani il virus non ci fa un cazzo.
Dissentire, ma solo limitatamente. D’altro canto quel tipo di barbarie non era tollerabile. La mia inferiorità numerica, ed i miei sacchetti della spesa mi rendevano comunque non all’altezza della situazione in termini di eventuale risoluzione a mezzo di schiaffi. Tentai l’unica strada percorribile, tanto ero quasi sotto casa.
Urlai: -Handicappati di merda, il virus è mutato, ora prende anche i giovani. Tempo una settimana ed avrete i polmoni pieni di piscio. Capito bene, pisciazza.
I giovani si allontanarono dal vecchio.
Io me la squagliai in fretta.
Un nuovo mondo ci aspettava, che poi era quello vecchio, solo più sfilacciato e più povero.
Feci le scale di corsa, diedi varie mandate alla porta di casa.
Piazzai il termometro sotto l’ascella, sentendomi un po’ come chi fa rullare il tamburo di una rivoltella prima di un giro di roulette russa.

Carbone da Caldaia.

Tutto quel freddo non si era mai visto tutto insieme in un paesino del Mediterraneo, non almeno all’interno della flebile cornice della memoria degli abitanti di quel preciso paesino.

La novità è facile che sbanchi tutto il resto. Può capitare di immedesimarcisi così tanto da provare ad essere la novità stessa.

Sfortunatamente quella novità era fredda e tagliente.

Era altresi probabile che le varie estati torride avvicendatesi avessero sbiadito il ricordo di un ipotetio inverno più freddo di quello in atto quell’inverno.

Il signor Giacomazzi si era fatto notare dai vicini per le continue urla e le accuse che rivolgeva al proprio gatto. Era noto per essere un uomo solo e collerico, vagamente incline ad accusare il prossimo per i propri guai. Non era infrequente che bevesse, ma i più in paese davano la colpa del suo strano comportamento alla sua inclemente solitudine.

Pomeriggi passati ad urlare, seguiti da acutissimi miagolii della bestia che pareva ogni volta sul punto di venire scannata. Ogni pomeriggio intorno alle 17 accadeva lo stesso teatrino. Anche i vicini maggiormente insensibili, la cui antisocialità era stata indebolita dalla vecchiaia, non riuscivano ad ignorare quei versi.

Capita del resto agli uomini anziani burberi che vivono da soli, magari con la compagnia di solo qualche hobby e qualche animale, di perdere completamente il capo.

Anzichè rivolgersi agli organi competenti, ovvero la forza pubblica o i servizi di salute mentale, il sindaco del paese si rivolse a tale K., un libero professionista specializzato negli insabbiamenti e nella risoluzione di guai che potessero dare pubblico scandalo.

L’assessore deputato alle politiche sociali contattò K. In modo piuttosto telegrafico, nonché quasi teleferico: -Urge intervento a riguardo di sospetta possessione. Importante il non coinvolgimento di giornalisti o peggio di social network.

Si parlava di circa 800 euro cacati di punto in bianco. K. era in paese in un momento di totale inoccupazione. Colse la palla al balzo per accumulare quel po’ di capitale da reinvestire completamente in vettovaglie, con lo scopo di aumentare il più possibile il suo peso o di morire nel tentativo di farlo.

Quel freddo totale gli ricordava i suoi natali in qualche posto del Nord Italia. Lo faceva morire di nostalgia quel vento freddo, che gli pareva la carezza di una terra lontana. D’altro canto i luoghi dell’immaginario, lontani nel tempo, finiscono con l’essere enormemente deformati dalla lente del ricordo. Il posto di cui sentiva la mancanza non esisteva più, come più non esisteva quel fitto meltin pot di meridionali trapiantati lungo una ferrovia tra le Alpi.

-Mi sento un po’ come se non avessi patria.

-Sei nel tuo paese Natale.

-No, sono nel paese dei miei genitori. La mia infanzia è avvenuta altrove.

-Ma chi cazzo se ne fotte, ti dico io.

Un interlocutore casuale, un parente potenziale, tarpò le ali di questo eventuale scambio.

Decise di non perdere tempo in ulteriori riflessioni sul ruolo del gelo nella sua vita e si ricompose cercando di trovare la necessaria densità per affrontare il suo ruolo.

K. andò disarmato. Voleva evitare di risolvere la questione come avrebbero fatto i servizi durante la Prima Repubblica. Più realisticamente non sarebbe stato in grado di ammazzare un vecchio a sangue freddo, e la strada della conciliazione sarebbe certamente stata più conveniente.

Bussò varie volte alla porta dell’anziano formalmente uscito di testa.

Nessuno rispose.

La casa del signor Giacomazzi era relativamente indipendente. Confinava con quelle vicine, e disponeva di un giardino decente, 200 metri quadri almeno. Il muro di recinzione non era troppo alto.

La gente dei paesini non ha bisogno di antifurti, o di sistemi di dissuasione più efficienti di un cane sufficientemente rustico. Di solito il controllo sociale vicendevole è tale da prevenire quell’insieme di comportamenti formalmente ritenuti anti-sociali. I furti si limitano alla raccolta di frutta e verdura degli altri, fermamente condannata da eventuali testimoni, ma limitata geograficamente alle campagne poste tra un paese e l’altro, quindi meno facilmente individuabile.

K. trovò il modo di arrivare nel giardino del signor Giacomazzi scavalcando.

Il giardino pareva abbastanza abbandonato. L’inerbmento tuttavia era limitato, le erbe infestanti tuttavia erano state tenute a freno dal rigore invernale.

Nel mezzo del giardino stazionava un gatto nero vagamente sfumato di rosso. Magro e col pelo lungo e gonfio.

Fece un cenno al gatto, K., che da canto suo ricambiò con un’occhiata tiepida, di neutralità piena, ottima piattaforma per costruire una eventuale amicizia, perlomeno all’interno dello standard di una relazione gatto-cristiano.

K. provò a bussare dalla porta interna del palazzo, assolutamente conscio del fatto che quel tipo di approccio gli avrebbe fatto guadagnare una chiara posizione di svantaggio, nonché un mare di guai in omaggio.

Gli venne in mente che, per le leggi in vigore in quel momento storico, un padrone di casa poteva sparare a chiunque gli entrasse nel giardino.

Tra se e se commentò: -All’Americana, porcoddio.

Giacomazzi aprì, parve sorpreso: -Ti ha chiamato quel figlio di puttana, vero?

-Dipende da chi intende per figlio di puttana.

Il piano originale di K. era quello di passarsi per un tecnico della società del gas che si era perso tra i vari giardini confinanti. Tuttavia, puramente per mere questioni legate al fatto che non riusciva ad inventare cavolate con quella temperatura decise di arrangiarsi con la verità.

-Hai capito di chi sto parlando. Lo sai bene…

-Vabbè, mi ha chiamato il sindaco.

-Sì, certo. Come no. Non me ne frega niente del sindaco. Il sindaco è un sacco di concime, non esiste neppure. Il sindaco sta sulla poltrona solo per poter permettere alle persone del paese di parlare male di lui. Io so chi ti ha chiamato.

-Ah, sì. E chi?

-Quel pezzo di merda di Carbone.

-Non conosco nessuno che si chiami così.

-In molti lo conoscono come Invernaccio.

-No, guardi, le spiego, mi ha mandato il Sindaco per cercare di capire cosa c’è che non va.

-Cosa c’è che non va?

-C’è che lei urla come un dannato tutti i pomeriggi, e si sentono dei rumori ascrivibili a macellazione clandestina di animali. Mi segue?

-Dicevo io che ti ha mandato quel pezzo di merda.

-Mi sta dicendo che il sindaco e questo Carbone sarebbero la stessa persona?

-No, ti ha mandato quell’animale…

Indicò col dito verso il giardino.

-Guardi, io capisco che magari l’operato del Sindaco sia discutibile, e che forse sia un tantino presuntuoso e supponente, però, ecco, dargli così dell’animale… non saprei. Cioè io neanche ci abito più qui in paese, però non mi pare…

-Stai zitto! Stai zitto e ascoltami! So che ti ha mandato il gatto. Ti ha chiamato qui per farla finita con me.

-Il gatto? Quale gatto?

-Quello che vedi in giardino.

-No. Non c’entra niente il gatto. Mi manda il Sindaco.

Provò a farsi capire dal vecchio guardandolo negli occhi, e facendo valere i propri di occhi come garanzia. Giacomazzi fece entrare K. In casa.

Era proprio una buona idea entrare in casa del Sig. Giacomazzi. Le possibilità di venire eviscerato dal padrone di casa erano comunque sostanziose.

-Quel gatto non è mio. Non l’ho preso io. Un giorno me lo sono trovato in giardino, insieme ad altri tre. Una piccola pezzata di vari colori, una simile a lui per colore ma con la coda mozzata ed un occhio guercio, ed uno tigrato a pelo corto. Li ho tollerati nella speranza che potessero allontanare i topi, ma col tempo sono diventati esigenti. Elemosinavano il cibo tutti i giorni, e la notte non mi facevano dormire. Miagolavano costantemente, se sgridati si allontavano come faine per ricomparire dopo qualche secondo. Testardi e insistenti come venditori di aspirapolvere o di contratti elettrici. Ignoravano le secchiate d’acqua ed insistevano col reclamare cibo. Al terzo giorno che non dormivo ho perso la testa. Prima ho ammazzato la nera con un grosso pezzo di legno, sono riuscito a centrarle la testa da una decina di metri. Un bel taccaro, pesante, di due o tre chili. Poi sono riuscito a bastonare quella piccola, sempre in testa, da vicino, mentre dormiva. Quello tigrato si era fatto furbo aveva capito l’andazzo. L’ho dovuto ammazzare col veleno per topi. Li ho tutti buttati nella spazzatura. L’ultimo lo volevo risparmiare, era l’unico affettuoso, quasi di compagnia.

-Ma intende quello che è ancora vivo?

-Quello che è là in giardino. Lo volevo risparmiare, ma miagolava anche lui sempre. In più dopo che avevo ammazzato i suoi amici si era fatto schivo. Mi sembrava normale finire il lavoro.

-E invece come mai non l’ha ammazzato?

-L’ho ammazzato sì, invece.

-Non mi sembra.

-Anche lui a bastonate, sulla schiena però. Dopo averlo ammazzato però ho pianto, e poi l’ho buttato nella caldaia. Ha fatto una bella fiammata, sembrava di aver buttato benzina nella caldaia. I termosifoni sono diventati bollenti. Un caldo mai sentito in inverno. Forse si era risolto anche qualche problema di umidità…

-Il gatto è quindi sopravvissuto ad un giro nella caldaia?

-Il gatto è morto, ma la mattina me lo sono ritrovato in giardino.

-Come?

-Il come non ha senso, non lo so, lo capisco da solo che non ha senso. Ogni pomeriggio lo ammazzo, quando la temperatura si abbassa. Neanche ha paura fino a quando non lo prendo in mano per rompergli il collo. Miagola e basta, i suoi graffi sono deboli, quasi rassegnati. Qualche volta l’ho infilato nella caldaia senza neppure romperglielo il collo. Ogni giorno la caldaia mi fa le feste, ed i termosifoni diventano caldi come l’inferno. Grazie a questo gatto sto risparmiando un sacco di soldi sulla legna, ma è evidente che non è una cosa naturale, ed è ovvio che dovrò pagarla. Ma la schiena ce l’ho a pezzi, e non riesco ad andare a prendere la legna. Mi sto accontentando.

-Secondo lei possiamo risolvere la cosa in qualche modo?

-Ho provato anche a lasciarlo morto in giardino, ma è uguale. Ho provato a fare le veglie alla finestra, ma mi sono sempre addormentato.

-Ha provato a tenere il corpo in casa durante la notte?

-Certo, e rischiare magari che la casa venga infestata dallo spirito? Ti sembro un cretino? Dimmelo, ti sembro un cretino?

-Non ha tutti i torti.

-Quindi adesso che sai come stanno le cose, che cavolo vuoi da me?

-Ecco, volevo chiederle… Posso prendere il suo gatto?

-A che scopo?

-Beh, vede, i miei genitori sono molto tirchi e st’inverno sto morendo di freddo. Capisco che il gatto le torna utile come sostitutivo della legna, ma ho paura che tutto questo stress la potrebbe fare impazzire. Inoltre, probabilmente questo fatto continua a ripetersi poiché i gatti morti l’hanno maledetta, quindi in teoria è molto facile che il gatto ritorni.

-E quindi?

-E quindi niente, mi posso tenere il gatto? Sa, a sto punto provo pure io a infilarlo nella caldaia.

-Guarda, visto come stanno le cose fai come vuoi.

-Va bene.

K. se ne andò col gatto. Il comune gli liquidò quegli ottocento euro. K. Usò la quasi totalità dei soldi per far recapitare del nocciolino da caldaia al Signor Giacomazzi. Decise di non provare ad usare il gatto Carbone come biocombustibile perpetuo, nell’eventualità che il Signor Giacomazzi si potesse essere inventato tutto.

Il Vincistocazzo.

Le regole del gioco.

Un pochino prima delle elezioni europee, un personaggio abbastanza di spicco all’interno del governo decise, per massimizzare il proprio consenso in chiave personalistica, di indire un concorso a premi su internet. Il regolamento prevedeva che totalizzando un certo numero di punti si potessero sbloccare delle ricompense, sotto forma di benefit di varie tipologie. I punti si accumulavano condividendo meta-materiale di promozione politica o esprimendo piena condivisione nei confronti dell’operato del partito di governo. Occorreva dare massima condivisione ai pensierini del capo politico, o esternare la propria approvazione mediante la moneta del gradimento o con commenti di sostegno. I benefit che si potevano ricevere in cambio erano tanto miserabili, quanto appetitosi. Si poteva vedere condivisa la propria foto sugli account di partito, come forma di riconoscimento per il proprio operato; un gagliardetto d’altri tempi, ma un gagliardetto pubblico. I maggiormente meritevoli invece potevano addirittura vincere una telefonata col capo-partito o, in casi davvero eccezionali, potevano addirittura prendere un caffè con lui e chiacchierare del più e del meno, dandosi di gomito come se fosse un normalissimo amico del bar con cui coalizzarsi per combattere vari e numerosi nemici. Il linguaggio condiviso tra Capitano (il capo-partito) e la sua gente era compresso tra il triviale, il volgare ed il qualunquista. Tutti venivano accettati all’interno di questa grande famiglia, purché ne condividessero la linea, fossero cittadini Italiani e riconoscessero nel leader una vera e propria figura paterna. Era sufficiente ingoiare a naso chiuso il nettare della paranoia verso gli stranieri, e l’astio per l’opposizione, i cosiddetti professoroni di sinistra: un’unica colata al cui interno si poteva identificare qualsiasi germe di dissenso verso il partito di governo; venivano qualificati come troppo benestanti per essere vicini ai problemi della gente, riccastri con la puzza sotto il naso, tossici che si facevano di cultura per finalità meramente narcisistiche.

Non contava quasi nulla l’essere, in seno a quel gruppo ed in generale in quel momento storico; quanto al sembrare invece il discorso era completamente diverso.

In molti si iscrissero al gioco. In fin dei conti era richiesto semplicemente di  interagire con i vari account di propaganda del partito, La Sega, acronimo di Secessionisti Eccentrici Garanti delle Autonomie; gli oppositori più pragmatici si limitano a definirlo come il partito della paranoia. Un governo a regia mediatica, con un montaggio nazional-popolare, almeno quanto una Uno bianca a inizio anni ‘90. Ai più non sembrava vero di poter avere un contatto reale con l’eroe di faisbec, che dal vivo si poteva vedere solo sui tanti palchi dove interveniva ad aizzare la folla. Non più uomo ma simbolo, vessillo, blasone, e poi insomma, vabbè… brand.

L’andazzo generale.

Da un punto di vista del bieco leaderismo, il Capitano aveva surclassato il precedente cavaliere nero capitalista. Il suo predecessore, in seno alla coalizione delle destre, aveva un partito azienda alle spalle, e vendeva patinati sogni di grandezza e gloria per tutti. Il Capitano, da canto suo, prometteva invece di scongiurare l’incubo dell’invasione e della sostituzione etnica; più che promettere la grandiosità prometteva al popolo la restituzione del maltolto; un miserabile Zorro con la pancia pendente, ma malgrado tutto aveva davvero il popolo dalla sua invece. Richiamava Mussolini per tanti aspetti, ma era anche un po’ pacioccone, smusso, così mediocre da non riuscire a suscitare invidia ma pressoché solamente identificazione, almeno all’interno del proprio elettorato. Si rifaceva a tradizione e famiglia. Di famiglie ne aveva avute diverse, in quel senso era un esperto. Il modello di famiglia che intendeva vendere era assimilabile ad una classica pubblicità della mulino bianco, solo che invece del cacao sui biscotti ci avrebbe restituito piuttosto qualche farina di immigrato. Ogni parola della sua narrazione era studiata da avvoltoietti in giacca e cravatta, laureati in qualche università per spaventapasseri, specializzati in pubblicità, edulcorazione, propaganda, mistificazione e narrazioni tossiche. Il suo entourage studiava i comportamenti del popolino su internet, per capire come si muovevano gusti e interessi della gente, in un dato istante, e l’opinione del leader veniva sintonizzata sul sentimento comune, di modo che il Capitano rispetto alle quisquilie pop potesse essere sempre dalla parte del popolo. Perennemente dalla parte del giusto a proposito di ciò che succedeva nella casa del Grande Fratello, ai movimenti del calcio-mercato, all’andazzo dei festival canori, al dramma dei cani abbandonati in autostrada, e così via dicendo. Il suo ruolo pubblico, in seno all’immaginario diffuso, veniva curato come quello di qualsiasi altra pop-star, rock-star, rap-star o trap-star; come quello di uno scrittore alla moda, o di un influencer, o di uno di quelli sportivi con troppa personalità.

Il mondo era cambiato in poco tempo. In qualche anno persone completamente disinteressate alla politica avevano trovato la loro ragion d’essere nel seguire il Capitano. Vite prive di qualsiasi fede, tranne quella calcistica, erano state riempite. Una serie di appartenenze facili. Italiani, sovranisti, nemici degli immigrati, nemici degli amici degli immigrati. L’altro alleato di governo, il Partito Complottista, da un punto di vista mediatico aveva spianato la strada al Capitano, promuovendo l’internet come il luogo delle verità assolute, e dove ciascuno, anche il più miserabile fallimento del sistema formativo, poteva dire la propria, essere incisivo, cercare consenso, cercare alleati nell’odio.

Non era male avere qualcuno su cui scaricare le colpe. Era fin troppo comodo avere nella propria cameretta un bersaglio a cui tirare freccette per lenire il peso dei propri fallimenti. Era tutto apparecchiato, il Capitano chiedeva solo di credergli e di dar a lui fiducia. Non bisognava fare troppo. Solo votarlo e sostenerlo sul campo di battaglia dei social, bar del villaggio globale, luogo di notizie false, di cazzate gonfiate, di livore, di parolacce, di odio, di insulti, di bullismo, di violenza, di barbarie, di ferocia, e perché no, di induzione al suicidio. I bagni di sangue erano assimilati al gel pulente perfetto. Lavare via le colpe individuali attraverso la creazione di un oggetto d’odio comune, in seno ad una libera piattaforma d’odio. L’odio era il principale collante di questo enorme ed amorfo blocco sociale che andava configurandosi. Il sistema delle ricompense si inseriva su un solco decisamente già ben segnato.

Un buon infiltrato.

Un ottimo infiltrato. Un meta-infiltrato. L’infiltrato, era contenuto nel corpo di un fan qualsiasi del Capitano. Quella coltre di desideri, di sostegno cieco, e di immedesimazione, erano stati patogenici per numerose persone, che si erano riempite di tale fanatismo come taniche di benzina. A riempirsi di troppi significati esterni in blocco, tuttavia, si corre il rischio di dimenticarsi di chi si è. Talvolta, per liberarsi da questo tipo di controllo, occorre agire in maniera istintiva. L’infiltrato vero era la formazione reattiva in seno ad un fan qualsiasi. Una grossa ipercompensazione latente, in attesa di esplodere, come quei famosi botti di Capodanno che la mattina del primo gennaio rendono i bambini non più in grado di giocare alla Playstation in maniera competitiva, cancellando rapidamente la residue euforia dei regali avuti per Natale.

Stocastico a pressione il fan del Capitano. Vittima di se stesso e col potenziale bellico di una scheggia impazzita.

Un fan vero. Uno che lo seguiva da molto prima del vincistocazzo, ma comunque non un vero fan della prim’ora. L’aveva conosciuto durante la marea pubblicitaria su faisbec, diciamo un fan di mezza ondata. Si era gradualmente innamorato del personaggio. Lo sentiva fortemente affine a sé, o meglio, al suo sé ideale. La sua visione del Capitano era sostanzialmente quella condivisa da molti, ed in linea con ciò che tale leader politico lasciava trasparire dai suoi social.

Il Capitano restituiva un’immagine sobria di se stesso, era uno che andava al mare in Romagna, uno che non aveva paura dell’acqua grigia, uno che riprendeva i vucumbrà che infastidivano i bagnanti in spiaggia, uno che prometteva un cambio di musica, uno che non le mandava a dire, che rispondeva a tono, che si faceva valere, sia in Italia che in Europa. Qualcuno che finalmente si dimostrava netto sulla questione della difesa dei confini. Qualcuno che non aveva paura di prendere posizione in chiave paternalistica sul problema della droga. Qualcuno che poteva farci sentire l’odore di un virilismo da prima metà del secolo scorso. L’uomo forte al comando, il lasso di tempo nullo passante tra pensiero ed azione. Dinamismo. E poi, insomma, il Capitano era uno che piaceva molto alle donne. Sempre dalla parte giusta, sempre pronto a rovesciare il tavolo, sempre pronto a rovesciare la prospettiva. In un’epoca di decadenza culturale totale, ove non esisteva più una verità certificabile, il Capitano saliva automaticamente nella posizione del predatore marino apicale, pronto a fare incetta dei tanti piccoli pesciolini grigi.

La questione non era tanto se inquadrare il Capitano come fascista o meno. I più ardimentosi parlavano

di meta-fascismo, o al contrario di pre-fascismo. Era tutto in divenire. Ma il linguaggio era quello

del fascismo storico, solo contestualizzato alla miseria della modernità del tempo. Un tempo, purtroppo, abbastanza presente ed attuale.

L’onorevole se la cantava per bene, anche con una certa autoironia di facciata. In lui c’era un po’ del classico Columbro di inizio anni ‘90, con un bel po’ di Pozzetto di contorno. A ben pensarci però, forse il Pozzettismo era il piatto principale, solo ripulito dall’ingenuità e della benevolenza classica del personaggio. Riusciva a comunicare uno schiacciante senso di mediocrità, che rassicurava i suoi elettori, sostenitori e fan.

I detrattori lo apostrofavano come Capitan Stocazzo, ma lui non se la prendeva mica, d’altro canto

quello era il suo cognome. Aveva fatto pratica durante la scuola e durante il servizio militare con quel tipo di insulti, aveva maledetto i suoi antenati, ma poi aveva fatto pace con la questione. Amava cripto-citare il marchese del Grillo: -Non è che mi sento Stocazzo, e che voi non siete un cazzo.

Il nostro fan era solo di qualche anno più vecchio dell’Onorevole. Aveva passato grosso modo tutto l’ultimo anno su internet, a sostenere il Capitano, criticando aspramente i suoi detrattori. Non era contentissimo dell’accordo di governo col Partito Complottista (noto anche come Partito della Franca Psicosi); aveva comunque ragionato sulla necessità di allearsi con una forza numericamente grossa e relativamente manipolabile. In ragione di ciò aveva dato il suo inutile assenso.

Quando il consenso elettorale della Sega, misurato coi sondaggi, aveva superato quello degli altri partiti, il nostro fan aveva cominciato a vivere anche una certa eccitazione sessuale, in seno alla piena immedesimazione col Capitano. Immaginava di essere intrappolato nel Corpo del Capitano, e di essere spettatore passivo di quello che succedeva al suo mito. Il protagonismo televisivo e sui social, le prime pagine sui quotidiani nazionali, le fidanzate da rotocalco, il calore della gente, le invettive contro gli acari dei centri sociali, i battibecchi in TV dove il Capitano rimetteva sempre a posto i suoi avversari. Immaginava di essere messo in difficoltà da qualche giornalista vicino alla linea del Partito Complottista e di rispondergli per le rime. Il suo grado di sollazzo massimo però avveniva quando immaginava di misurarsi con qualcuno della sinistra; i suoi sogni bagnati erano popolati da giornaliste sessantenni, piacenti e con abbigliamento vagamente fetish da dominatrici. Il pensiero di domarle con i suoi validi argomenti gli restituiva una totale sensazione di controllo sul mondo.

Giacomo (nome di fantasia del nostro fan) sentiva di essere l’anima gemella del Capitano. Il suo era un innamoramento platonico. L’unico sentimento di invidia che provava per il Capitano era quello relativo al come il suo eroe riuscisse ad essere spontaneo, e ad esprimere con facilità quella parte di sé, mentre Giacomo invece viveva sostanzialmente in una prigionia volontaria, fatta di desideri inesauditi e di godimenti immaginari.

Noto ai servizi psichiatrici di zona, Giacomo era stato sempre sottovalutato per la sua estrema bizzarria. Nessuno dei medici che lo aveva visitato credeva a quanto raccontasse di sé, veniva scambiato per un millantatore in cerca di un qualche tipo di invalidità. Si era auto-eletto dio delle zanzare. Nella convinzione che le zanzare lo potessero depurare dal male che aveva dentro, aveva sacrificato la sua vasca da bagno, trasformandola in un grosso allevamento. A quegli insetti dava una funzione emuntoria ulteriore. Teneva le finestre chiuse per la maggior parte del tempo. Nutriva gli esemplari adulti con soluzioni di acqua e zucchero, e dava verdure bollite alle larve nella vasca da bagno, con dei piccoli addendum di forfora o altre secrezioni del suo corpo. In casa restava in mutande, coperto di zanzare che lo succhiavano. Il suo sangue serviva a garantire nuova prole a quelle bestie. Tecnicamente il suo corpo fisico continuava nelle zanzare. Di generazione in generazione di insetti percepiva quelle zanzare come sempre più vicine a lui. Le punture che un tempo gli elargivano fastidioso prurito erano infine diventate assolutamente neutre. Nessun fastidio di sorta, solo un lieve e fugace piacere. Spesso ingoiava i ragni che trovava in casa, come un rettile, per ridurre i problemi delle zanzare. Non aveva tardato a cominciare a sentire gli insetti parlottare tra di loro, ad un volume bassissimo. Il più delle volte lo elogiavano, per il fatto di aver compreso come rimanere in salute in maniera economica, e senza dover ricorrere a dei miserabili medici. Altre volte tuttavia erano pungenti rispetto alla sua situazione:

-Ci da il suo sangue, è vero, dovremmo essergli grate, ma diamine, non ha neppure una vita.

-Da quando ha smesso di andare a prostitute pare che sia privo di scopo.

-Basta che una di noi si faccia un giro nelle case del vicinato, una casa qualsiasi, una a caso, e troveremo sicuramente qualcuno che ha una vita migliore della sua.

-Certamente per noi è un dio ed un padre. Fonte di nutrimento e di saggezza, ma nella società degli uomini è poco più di un sacco di spazzatura.

-Certo che è conveniente per lui tenerci in casa sua, visto il servizio che gli facciamo.

-Ah, se noi potessimo essere donne anziché zanzare, lo potremmo fare felice eccome.

-È molto invecchiato nell’ultimo anno, però in effetti anche prima l’età non è che se la portasse bene.

-Se prende i farmaci è sicuro, al mille per cento, che diventa un invertito. Fa bene a non prenderli.

-Sarebbe interessante se riuscisse a masticare i propri denti prima di inghiottirli, ma come si fa a masticare dei denti con le pure gengive. È davvero possibile?

-Il giorno in cui morirà, purtroppo, la sua anima migrerà dentro tutte noi. Quello che mi domando io però è, se la sua anima viene scomposta in cinquantamila zanzare, nella singola zanzara cosa ci rimane di lui. No perché, anche adesso che è tutto intero nel suo corpo di uomo, di cervello non è che ce ne sia tanto.

-Lo vedrei bene ad asciugarsi i capelli direttamente nel forno.

-L’ho sognato da ragazzo, aveva più brufoli che capelli, e per chiarezza, non è che fosse così calvo.

-È da una decina di anni che le persone sono tutte collegate via macchinari. Ma i vecchi hanno cominciato dopo a collegarsi. Quando hanno cominciato loro a farlo il mondo ha iniziato ad accartocciarsi su se stesso, ed i concetti di verità e di bugia si sono frammisti fino a diventare inestricabili. Faisbec ha emulsionato il tutto.

-Mi immagino il giorno in cui, mentre piscia, gli si stacca l’uccello e gli cade nel cesso. Quel giorno, carissime, ci faremmo tante di quelle risate da morire stecchite come su una racchetta elettrica.

Spesso piangeva quando si sentiva attaccato dalle sue beniamine, ma non uccideva mai alcuna di loro con dolo. Al massimo poteva capitare che muovendosi nel sonno ne schiacciasse qualcuna, ma anche in quei casi provava risentimento verso se stesso. Non le odiava, malgrado quello che dicevano. Era sicuro che con quel tipo di apparato biologico in casa, con quell’ecosistema malarico, non sarebbe mai morto, a differenza di quei poveracci che vivevano nel mondo vero. Ignorava le teorie sulla trasmigrazione dell’anima che gli proponeva qualcuna di quelle zanzare. La sua vita era virtualmente illimitata, per quanto miserabile. Probabilmente anzi, in seno a quella non vita, a quella pressoché totale mancanza di godimento, vi era l’elisir dell’immortalità. Non consumare la propria vitalità, per Giacomo, era il modo per non morire mai. L’idea che sarebbe sopravvissuto al Capitano un po’ lo sconfortava, ma anche in ragione di ciò, aveva deciso di fornirgli il suo supporto.

Usciva di casa prevalentemente per fare la spesa. Viveva con la parte di pensione che la madre gli passava, in una casa di proprietà, da solo. Su internet tuttavia aveva trovato delle nuove motivazioni identitarie, qualcosa che lo rendesse qualcosa in più del dio delle zanzare.

Con l’arrivo del Vincistocazzo si aprirono dei nuovi spazi di gratificazione. Vedeva finalmente una forma di premio per i suoi sforzi. Aderì con decisione.

Si impegnò al massimo. Attaccò con costanza i profili del Partito Grigio, definito da lui stesso Partito Demogeriatrico, accompagnando le sue invettive con l’hashtag #vecchidimerda. Attaccò ogni candidato alle europee che non fosse della Sega. Attaccò sindaci di grandi, piccole e medie città. Attaccò i giornalisti sulle loro pagine ufficiali. Il suo stile retorico era il medesimo del Capitano. Frasi secche. Paragoni forzati. Parallelismi insensati ma d’effetto. Benaltrismo belligerante, mandarla in caciara, puntare solo e soltanto alle viscere. Colpiva anche sul personale, senza troppi problemi, vecchia scuola

Forza Italia, di cui comunque era quantomeno cintura verde. La soddisfazione che gli dava vomitare odio era in grado di restituirgli ancora qualche piccola erezione. Ogni volta che ciò accadeva rimaneva sorpreso.

Il giorno in cui una sua foto venne pubblicata dall’account ufficiale della Sega, capì che il suo momento era arrivato. Era arrivato il momento di librarsi in volo, e divenire vestale finale del Capitano, cane da caccia perfetto, cecchino infallibile, sicario silente, nemesi divina, autobomba parcheggiata durante una manifestazione della CGIL.

Non si concepiva più come un uomo che ama un uomo, ma come un meme che ama un meme.

La foto pubblicata in questione ritraeva Giacomo, davanti ad una bandiera della Sega, mentre incendiava un poster della nazionale giamaicana di Bob. Probabilmente il poster era appartenuto allo stesso Giacomo, in una fase precedente della sua vita. Quella foto con dei neri che bruciavano aveva fatto accendere il cuore di molti militanti del partito del Capitano, ma erano anche partite numerose polemiche accese dagli organi di stampa del Partito Grigio, e su cui si erano inseriti numerosi giovani di sinistra, i pochi che ancora non si erano dati al disimpegno hipsteroide. Tanti altri militanti della Sega presero posizione per difenderlo dagli attacchi. Ne era sicuro, non era più solo, faceva parte di qualcosa di più grande.

Non tardarono i messaggi di apprezzamento per il fatto di essersi esposto in maniera così netta. Non era più un miserabile che odia gli altri dagli anfratti della sua stanzetta. Era finalmente uno figo. Uno del popolo che sa dire la sua. Diciamolo pure, uno coi coglioni, che era in grado di riscuotere simpatie sui vari social. Il suo isolamento sociale pluriennale veniva mandato in soffitta, con tutta la vergogna ad esso associata. Non era più un fallito.

Attaccò personalmente ogni comunistoide che si era permesso di criticare la sua foto. Usò termini

coloriti. I soliti paragoni con le zecche, due cazzate sul comunismo platonico inerenti il fatto che sotto

il comunismo tutte le donne diventano di tutti, e quindi implicitamente delle puttane d’uso comune; disse in maniera chiara che tutti quei presunti compagni erano dei comunisti col Rolex, gente che aveva fatto scuole alte, membri dell’establishment, raccomandati, e alla fine quasi tutti dei coccola-negri. Disse che si trattava di una schiera di fannulloni che nella vita non avevano mai avuto problemi, a differenza dello zoccolo duro del popolo della rete, unito da una condizione di vittimismo stenico, un popolo che intendeva spezzare le proprie catene e vendicare i soprusi subiti, accoppando comunisti ed extracomunitari.

Si concentrò anche su argomenti francamente più gretti tipo il non uso del sapone da parte dei comunisti, e del fatto che troppo spesso le donne di sinistra non curavano con sufficiente attenzione la propria epilazione. Parlò della classica giornata media del comunista, intento a coltivare funghi sul divano di casa attraverso il proprio poltrire, farcito di canne e letture inutili dell’espresso. Schifò con livore le scarpe aperte in cuoio, in quanto vettrici di lerciume della peggiore specie.

Piovevano attestati di consenso, sotto forma di pollici. Anche lui, all’interno della cornice del proprio browser, stava diventando un personaggio in qualche modo paragonabile, seppur su un’altra scala di grandezza, al grande Capitano.

Continuò ad impegnarsi. Condivise a più non posso. Si fece un sacco di amici. Diventò un vero stendardo mediatico della sega. Andò a stanare tutti i “democratici” che avevano condiviso foto ironiche del fu Duce appeso come un salame, e tuonò sull’obbligo atavico di rispetto che in Italia abbiamo nei confronti dei nostri antenati.

Imparò un sacco di cose leggendo i commenti degli altri. Li fece propri. La sua identità virtuale nutriva costantemente quella reale, ridotta a poco più di larva ormai impupata.

Si sentiva esattamente così. Una crisalide, che matura al computer, in una stanza buia, umida, di muffa condita, entro lo spessore di un’aria densa e malsana, di polvere in perenne sospensione nell’aria. Le isole di schifo, di polvere e capelli, per terra. Quella crisalide un giorno si sarebbe aperta, e dal suo interno si sarebbe liberata una bellissima farfalla verde.

Rimorchiò virtualmente numerose signore, quasi tutte sopra i cinquanta, che lo stimavano molto, ed avevano alta considerazione di lui, considerandolo arbitrariamente uno dei preferiti dal Capitano. Non aveva il coraggio di incontrarle, anche per le difficoltà organizzative dell’uscire da casa. Gli bastava però sentirsi considerato. Quello per lui era davvero tanto.

Giunse infine il giorno della chiamata. Pochi minuti al telefono. La chiamata era un premio davvero prestigioso, e che solo pochi potevano ricevere. Per lui rappresentava quello che negli anni 90 sarebbe stato un rapido coito orale con Claudia Schiffer o con Cindy Crawford.

Gli si strozzava la voce, non riusciva a rispondere. Era troppo emozionato. Le lacrime solcavano il suo viso, e la faringe si era probabilmente avvolta a nodo.

Riuscì a farfugliare solo sciocchezze tipo: -Grazie Capitano, noi crediamo in te. Tu sei quello che ci salva da questa politica di merda. Io ti seguo perché ci credo.

Seguirono le settimane, nel solito tran-tran e si era ormai a ridosso delle europee. Giacomo accarezzava con sempre maggiore desiderio il primo premio. Il caffè col Capitano.

Il suo indice di gradimento continuava ad aumentare, ma per via dei suoi costanti rifiuti rispetto all’incontrare gli altri fan, e per via del suo aspetto sostanzialmente dimesso e mal curato, constatabile in molti dei suoi “Video Verità”, gradualmente anche all’interno della fan-base della Sega qualcuno cominciò a domandarsi quanto Giacomo stesse apposto col proprio cervello. Lui da canto suo tirava dritto, come piaceva dire al suo eroe, ed ignorava le isolate critiche. Chi lo criticava era solo invidioso del suo rapporto privilegiato col capo-partito.

L’apoteosi.

C’era l’ufficialità. Lo avrebbe incontrato. Avrebbe preso quel caffè con lui.

Giacomo sognò una lunga fila di persone, sia uomini che donne, in attesa al di fuori di un bar tutto sommato umile. Entravano uno alla volta all’interno del locale, posto ad altezza strada e non troppo grande, con vetri opachi. All’interno del locale, davanti ai baristi ed alcuni membri dello staff, ciascuno dei fan eletti poteva avere un rapporto carnale completo col Capitano. Le modalità con cui però avveniva tale rapporto, erano ovviamente decise dal Capitano medesimo. Quel tipo di situazione non faceva dubitare Giacomo della virilità del suo eroe, ma anzi, lo innalzava ad un ideale massimo di condivisione. Il Capitano si donava alla sua gente, e rendeva tutti felici, anche col proprio corpo.

Probabilmente Giacomo aveva fatto quel sogno per via della forte esaltazione e tensione sessuale che talune fan del Capitano avevano nei suoi confronti. Ma lui sarebbe davvero stato degno di unirsi carnalmente col suo eroe?

E se invece le cose fossero andate diversamente? Se il Capitano avesse deluso Giacomo rifiutandolo?

Questi pensieri passavano però subito via, spazzati dalla piena certezza che il cuore dell’eroe collettivo fosse sufficientemente puro da superare gli steccati ideologici dell’orientamento sessuale. Unirsi col Capitano, significava poter diventare davvero, anche se non per troppo tempo, parte viva del leader.

Tutti avevano diritto a quel tipo di amore e di fusione, ma forse Giacomo, in virtù del suo impegno, lo meritava più di qualcun altro.

Scrisse una poesia da recitare al momento dell’incontro, lo stile era quello neo-futurista:

Spabam,

forte lo schiaffo del Capitano,

si incunea sugli zigomi del giornalista.

Sbabum,

grande il sollazzo del popolo libero

nel veder i negri fuggire nel mare.

Clank-Clank,

si tingono di rosso sangue dei rossi

le spranghe del popolo del web.

Sploff-Sploff,

diventano paludi le radical maestrine

quando vedono il Capitano alla tivù.

Zriiin-Zriiin,

quando lui arriva,

tutte le piomba.

Ottenne qualche tiepido consenso, ma solo nei gruppi privati di condivisione propagandistica. Pensava che comunque un simile livello di lirismo forse non era adatto al popolino, ma che il Capitano avrebbe apprezzato in pieno sia la forma che il pensiero che c’era dietro.

L’incontro era fissato. Recuperò una giacca del padre al gusto naftalina, si lavò a pezzi ma con cura, si tagliò i capelli da se, ed infine si spalmò una crema idratante rubata alla madre, nella speranza che avrebbe reso la sua pelle più morbida e le sue carni più vigorose. Il Capitano era solo ad un’ora di treno da lui. Avrebbe dovuto parlare ad un comizio in serata. Giacomo per precauzione portò con sé un cacciavite. Spaventato dal timore di avere un buon indice di riconoscibilità nel mondo esterno a casa sua temeva di poter essere riconosciuto da qualcuno di coloro che aveva offeso pesantemente. Il rischio andava corso, ma forse era meglio prendere qualche piccola precauzione. Mentre ripeteva con la bocca la parola “precauzione” un ampio sorriso incorniciava i suoi denti marci e moribondi.

Il viaggio andò tranquillamente. Pure troppo. Nessuno lo riconobbe. Questa cosa non gli andava troppo a genio. Sentiva quasi una frattura tra il suo ruolo pubblico-virtuale e l’anonimato perfetto che vestiva. Valutò però la possibilità che ciò facesse parte delle sue abilità; un agente invisibile, in fin dei conti, può muoversi come gli pare.

Arrivò a destinazione, il locale era più decoroso di quello che aveva sognato. Prima di lui c’erano altri due privilegiati. Un ragazzo ed una ragazza molto giovani e ben vestiti. Vestiti molto meglio di lui che sembrava sostanzialmente un clochard. Gli operatori della sicurezza, dei buttafuori eleganti, gli risero in faccia, ma poi spavaldo ed un po’ arrogante, Giacomo tirò fuori il telefono che conteneva la mail ufficiale, con tanto di codice di riconoscimento, che gli forniva il diritto di prendere un caffè col Capitano.

Lo fecero passare. Il cuore stava quasi per esplodergli nel petto. Si sentiva come quando aveva sentito il suo eroe per telefono, ma era infastidito dalla presenza degli altri ragazzi, e dallo staff del Capitano. Quegli intrusi guastavano quel momento di intimità.

Era goffo ai limiti del ridicolo, per quanto si sforzasse di essere preso sul serio.

Il Capitano finse di ricordarsi di chi fosse Giacomo, ma lo stratagemma non funzionò. Il nostro fan si sentì come colpito da un camion all’improvviso, le sue certezze posticce si sgretolavano davanti a quella mancanza di considerazione. Non valeva però la pena di perdersi d’animo. Declamò la sua poesia a memoria, con fare isterico, quasi contorcendosi, incurante dell’imbarazzo collettivo.

Il Capitano sdrammatizzò in modo neutro: -Abbiamo un poeta qui, alla faccia di quelli della sinistra che si considerano gli unici maestrini della cultura.

Il commento del Capitano non bastò a gratificarlo. La persona che Giacomo aveva di fronte era un traditore. Ma non poteva essere davvero così la persona che aveva idolatrato per tutto quel tempo. Chi aveva di fronte non era lo stesso carismatico leader che Giacomo aveva amato su faisbec ed in televisione. Non era l’uomo della gente. Gli mancava quella forma di sensibilità tipica del Capitano, quella che secondo Giacomo era indispensabile per apprezzare il valore della poesia che lui aveva scritto. Il vero Capitano avrebbe colto al volo il loro legame speciale. Quel pagliaccio derisore era un traditore del vero Capitano, una brutta copia, un’imitazione. Non era vero. Non era lui.

Giacomo doveva salvare il Capitano da questo sostituto di carne.

Gli occhi gli si incupirono, mentre tutti gli astanti erano impegnati a giudicarlo come zimbello e a deriderlo. Meritava qualche riconoscimento in più. Meritava di essere riconosciuto per quello che aveva fatto. Da canto suo non riconosceva affatto in quell’impostore il suo oggetto d’amore, non era la persona a cui si era dedicato con tutto il cuore.

Tirò fuori il cacciavite dalla manica della giacca. Riuscì a piantarglielo nella fronte e con dei movimenti rapidi e secchi fece leva un po’ dappertutto dentro quel che c’era nella teca cranica.

Il linciaggio susseguente gli fu quasi fatale. Venne portato in carcere.

Aveva un ruolo. Aveva di nuovo un ruolo. Uccidendo quell’uomo aveva salvato il Capitano, la persona più importante della sua vita, dal rischio di essere confuso con un bifolco qualsiasi, con un doppelgänger addetto alle pubbliche relazioni.

Era comunque diventato qualcosa in più di un semplice dio delle zanzare.