Al cavaliere nero non gli devi da cacare il cazzo. (cit.)

(ispirato dalla famosa barzelletta di Proietti)

Una vita di rimpianti.

Una senilità raccolta.

Una serie di titoli conquistati sul campo, tra cui quello di cavaliere formalmente imbattibile.

Un unico oggetto magico, proveniente da un futuro lontano. Un libro che parlava delle non-gesta non-eroiche di un cavaliere spagnolo in ritardo di qualche secolo rispetto alla cavalleria. Un romanzo sulla malattia mentale più che altro.

Il cavaliere si teneva stretto quel romanticismo, pensando che in futura la cavalleria non ci sarebbe più stata, ma non sarebbero mancati i nostalgici della stessa.

Rispetto alla propria solitudine diceva: -La vecchiaia è quel posto al cui interno trovi solo quello che ci hai portato. Io l’unica cosa che ho trasportato sono vagonate di altri cavalieri, inviati però non nella mia vecchiaia, ma direttamente all’altro mondo.

Sbiaditi ricordi degli amori passati, della cui intensità ed effettivo valore dubitava.

Invecchiando aveva perso quasi tutta la sua rudezza e ruvidità, e spesso ragionava sul se avesse potuto vivere una vita diversa, non nelle armi ma in qualcosa di più umano. Era però perfettamente conscio della non riavvolgibilità del tempo, e si sforzava di accettare il proprio presente figlio dei pregressi errori, di cui non andava orgoglioso ma che in qualche modo si erano rivalti necessari.

Il cavallo che lo portava in giro era eccezionalmente vecchio, ma incredibilmente vigoroso benché bizzaro nel comportamento e nelle abitudini. Superati i quindici anni di età si era dato al carnivorismo. Non disdegnava, nello specifico, i cadaveri di uomini.

Il mezzo di sostentamento del cavaliere era più che miserabile. Veniva chiamato da abitanti di qualche villaggio per sedare scaramucce locali, il più delle volte coi malviventi del posto. Le scaramucce per quanto “ucce” venivano comunque sedate nel sangue.

Si vedeva, malgrado l’età, più come un boia che come un cavaliere.

Malgrado le sue ginocchia suonassero come nacchere e la sua schiena dolesse come se la colonna ospitasse uno spinoso roseto, la perfezione dei suoi movimenti gli permetteva di vincere qualsiasi combattimento con la stessa naturalezza di un fattore che tira il collo ad un coniglio o ad una gallina.

Una pesante armatura nera che non era facile comprendere come riuscisse a reggere. Una spada che sembrava d’onice o d’ossidiana, ma che lui garantiva che fosse solo di acciaio macchiato. Uno scudo leggero, nero anch’esso, con sopra inciso un grosso cane bianco, somigliante ad un pastore maremmano, un cane nero somigliante più ad un lupo, ed un grosso gambero dominante tra i due. Tuttavia la sua arma principale e la sua corazza più resistente erano l’illimitato livore e l’enorme risentimento nei confronti di una vita, che nella vecchiaia, gli sembrava essere stata verso di lui ingiusta.

Diceva al suo cavallo: -Carissimo Luna Nera, ho vissuto come mi pareva giusto vivere. Ho fatto il mio lavoro, per quanto eticamente discutibile fosse. Ho partecipato anche una crociata, per quanto fallimentare malgrado le mie tante vittorie ai punti. Ho sempre fatto quello che dovevo fare, tranne tentare di ingraziarmi i vari signorotti locali o la pulciosa e viscida curia. Tuttavia quello che ho messo da parte è poco, una masseria dove non dormo mai, e la libertà di cavaliere errante, terrifico e temuto e rispettato, ma senza calorosi porti dove tornare. Penso di aver sbagliato tutto. Penso di essermi giocato molto male le mie carte.

La sfortuna del cavaliere, una delle tante, era quella di essere sano di mente, con tutti i limiti del caso, incluso soprattutto quello relativo al fatto che il cavallo non potesse rispondergli.

Un cavaliere bianco al contrario, duca e signorotto, godeva di una ampia e grassa progenie.

Sfarzo, terre, ricchezza, opulenza. Una famiglia eccezionalmente numerosa, i cui però i diritti e le tutele erano rigidamente in mano alla linea di sangue maschile.

Si faceva chiamare Duca della luna bianca, e passava le giornate a vantarsi di vecchie e millantante glorie. Non era un pezzo da nulla, ma neanche un pezzo grosso della cavalleria, in termini di valori; al netto di tutto però era ampiamente considerabile un pezzo di merda, se non altro per la propria gradasseria.

Provocato dai suoi nipoti e pronipoti circa la propria virtù bellica ebbe da litigare furiosamente:

-Quindi nonno, che tanto ti vanti dei tuoi passati, non pensi che per darne a noi prova dovresti cimentarti in una vera impresa?

-Sentiamo, cretini di prima specie, cosa dovrei fare?

Venne sondata una lista delle imprese possibili da svolgere:

-Ipotetiche crociate che però non parevano in vista.

-Caccia a qualche abnorme cinghiale.

-Ricerca e uccisione di un poco plausibile drago.

Infine, si accordarono su una impresa che pareva maggiormente plausibile.

Disse uno dei pronipoti.

-Nonno, nonno. Accordiamoci su qualche cosa alla tua portata. Nei pressi della città di Sgiurdiniano staziona il famoso cavaliere nero. Quello delle mille imprese e già eroe di almeno una crociata. Ha acquisito infiniti punti valore, lavandosi nel sangue di migliaia di uomini. Ma nel presente che viviamo ha ben più di settant’anni, e gira voce che passi le giornate a parlare ad un cavallo che, per forza di cose, non può e non vuole rispondergli. Sarebbe sicuramente un bell’affare per te, che sei dieci anni più giovane di lui, sfidarlo ed ucciderlo. La nostra casata ne beneficerebbe enormemente. Il valore che lui ha conquistato in cinquant’anni diventerebbe nostro nell’arco di una mattinata.

Il nonno rispose: -Certamente è una valida idea, anche se quel tale nel sangue pare lavarsi ancora. Ma per fortuna solo nel sangue di piccoli banditi e di impiastri da quattro soldi. Accetto quindi di buon grado la sfida. La sua armatura sarà un pezzo di pregio nel nostro corridoio dei trofei.

L’intera famiglia, con le varie diramazione di larga maglia accolse con estremo entusiasmo tale possibilità.

-Non potevi prendere decisione più lieta nonno.

-Questo è il vero coronamento di una storia familiare di livello, che diverrà a breve di livello assoluto.

-Forse il titolo di duca non sarà più sufficiente!

-Se il nonno diventasse principe, sai che svolta.

Il Duca Lunare quindi si diresse dal cavaliere nero, portando con sé unicamente il paggio Giansergio come testimone.

La sua armatura era bianca, e portava con sé cavallo e spada anch’essi bianchi. Il paggio, che svolgeva anche la mansione di scudiero improvvisato, teneva ancorata al proprio cavallo anche un’alabarda del duca medesimo, bianca e con qualche rubino ornata.

Diceva il duca al paggio: -Su questi personaggi si ricama sempre molto. I numeri si moltiplicano, le imprese si ingigantiscono. Se si rimane tra i pochi vivi su un campo di battaglia si possono rivendicare tutti i morti che si vuole. Il valore di uomini straordinari esiste, ma la carne è la stessa per tutti, ed il ferro, col giusto slancio, è più che sufficiente a renderla concime. Questo vale sia per gli uomini miserabili, che per quelli ordinari, ed addirittura per quelli straordinari.

Il paggio annuì viscidamente, leccando come di consueto il sedere del proprio padrone.

Arrivarono dal cavaliere nero. Lo trovarono nell’atto di chiedere al proprio cavallo a quale motivazioni si dovesse aggrappare per poter continuare a respirare. Il cavallo non rispose.

Ci pensò il duca però a rispondergli, presentandosi.

-Sono il Duca Gregorio, anche conosciuto col titolo onorifico di Duca Lunare. Sono qui oggi per sfidarvi, ed in linea con quello che chiedete al cavallo, sono qui anche per restituirvi una motivazione per cui respirare e combattere. In alternativa però si può dire che sono qui anche per prendermi la vostra testa ed il vostro onore.

Il cavaliere nero si sgranchì le spalle.

-Un vecchio come me è poco più di un fantasma. Un guscio di legno che viaggia in un mare di nebbia, senza alcuna direzione reale, senza sapere a che sponda votarsi. La mia vita, nella sua complessità, riguardandola da lontano mi appare come un campo brullo e sterile, concimato col sangue e con la carne degli uomini. Un campo però che, a differenza dei veri campi di battaglia, risulta però assolutamente sterile.

-Accettate quindi la sfida?

-Con piacere. Ma un vecchio come me non potrà darvi molto divertimento. Se aspettaste qui fino al termine della mattinata potrei addirittura morire da me di noia o di fulminante vecchiaia e voi potreste prendervi comunque l’onore e la glora a me legati, colpendomi postumamente. Se però non avete pace di aspettare e volete accelerare il processo, io sono qui per affrontarvi e per perdere.

Il paggio derideva il cavaliere nero per la sua mancanza di orgoglio e per la propria estrema umiltà.

Il duca lunare invece appariva preoccupato. Si aspettava un vecchio irritabile ed arrogante, ma quelle parole di pace dichiarate gli restituivano una impressione di situazione non perfettamente a fuoco.

Il paggio tuttavia lo spronò, e decise quindi di tentare di porre il prima possibile termine a quella disturbante situazione.

-Accettate, cavaliere nero, che io vi affronti con alabarda e spada.

-Sentitevi libero di usare le armi che meglio preferite, in fin dei conti questo duello è quasi una formalità. Facciamo in modo che duri il meno possibile.

Il duca si fece coraggio. Caricò con l’alabarda come nei suoi anni migliori. Un colpo di taglio, diretto dall’alto verso il basso, a mezzaluna, come il blasone di famiglia.

Il cavaliere nero si fece di lato, quasi come fuscello spostato dal vento. Portò la spada al collo del duca, ormai sbilanciato, e lo penetrò da parte a parte. Ruotò la spada solo per assicurare un coerente fiotto di sangue.

Al duca morente disse:

-I duelli sono così, sono sempre un po’ imprevedibili. Uno magari partecipa con la decisa intenzione di perdere, ma poi la paura di morire o anche semplicemente solo del farsi male prevale… ed a quel punto in qualche modo bisogna fare.

Il duca cadde al suolo morto.

Il cavaliere nero fu educato e gentile col paggio. Non ebbe pretesa di appropriarsi d’armi, armatura, cavallo o altri averi. Chiese unicamente al paggio un contributo economico per saldare il lavoro svolto, cosicché potesse provvedere al proprio auto-sostentamento.

-Mi rendo conto che non è corretto chiedere del denaro, dato che ad inizio duello non era stato concordato, ma l’esito più probabile appariva così diverso dal come sono andate le cose che in effetti non avrebbe avuto molto senso chiederlo prima.

Il paggio cedette al cavaliere nero delle monete d’oro e portò al castello il corpo del duca.

La famiglia del duca non accolse bene la notizia.

Il funerale durò tre giorni.

Il senso di colpa relativo all’aver mandato il capo famiglia verso la morte venne rapidamente sostituito dall’odio verso quel cavaliere che lo aveva ucciso, probabilmente con l’inganno. Dal resoconto del paggio venne tratta l’interpretazione relativa al fatto che il cavaliere nero avesse fatto appositamente una messinscena volta al farsi sottovalutare, per colpire mortalmente il duca al primo passo falso, sfruttando il falso senso di sicurezza indotto dal proprio dichiarato desiderio di morte.

I figli del duca, Dusco, Daspa, e Ramaruta decisero che tale delitto andava certamente vendicato, e che non si poteva lasciare andare la famiglia in rovina parallelamente allo sgretolamento del valore del blasone familiare.

-La notizia si diffonderà in tutto il regno, e la nostra famiglia verrà considerata disgraziata, avendo noi perso il nostro capofamiglia e duca nello scontro con un vecchio pazzo.

-Quel vecchio pazzo però, occorre dirlo, ha nomea di cavaliere leggendario. È stata anche nostra colpa inviare nostro padre in un duello con un simile mostro dei campi di battaglia, con la stupida sicurezza che la vecchiaia avesse potuto seccarlo.

-Non importa. Metteremo in giro le voci che ha vinto con l’inganno, così che ci pensino i cavalieri del regno a metterlo a riposo.

-Se ci pensassero i cavalieri del regno a mandarlo al creatore, perderemmo quello per cui nostro padre è morto. Un onore più grande. Una corona più grossa. Entrare nella leggenda. Se poi come in effetti pare, quel tale è riuscito a vincere esclusivamente con l’inganno, noi che di anni ne abbiamo 30 di meno, dovremmo riuscire ad avere ragione di lui, soprattutto presentandoci unitamente.

I nipoti del Duca furono d’accordo coi figli. I pronipoti non avevano molta voce in capitolo.

I tre partirono, accompagnati dal paggio.

-Non possiamo prenderlo sottogamba. Le leggende non si creano da solo. Si scrivono usando il sangue dei nemici come inchiostro e la propria armatura come carta.

-È però inaccettabile pensare che un vecchio cavaliere errante, uno che dorme nei boschi, possa aver ucciso nostro padre armato di alabarda, utilizzando peraltro unicamente una spada.

-Diceva il padre di nostro padre che l’esito dei duelli rimane sospeso perlomeno fino al secondo o terzo sangue. Non sai mai quale possa essere l’effettivo valore o disvalore del tuo avversario. Non ne conosci le virtù e i difetti, non puoi sapere se ricorrerà a dei trucchi.

-Ma non è questo il punto. È un vecchio fiaccato dall’intemperia, che mangia quel che trova e che probabilmente non si lava da mesi. Un vecchio di merda che vive dentro un’armatura da chissà quanto tempo. Parla solo col suo cavallo. Un uomo del genere dovrebbe essere chiuso in un sanatorio fino a quanto smette di respirare. Un uomo del genere non può essere un cavaliere di valore.

-Tutte queste difficoltà probabilmente lo hanno temprato. Il suo non aver niente da perdere è probabilmente ciò che lo rende così temibile. La morte è attratta prevalentemente dalla paura di coloro che la temono.

Lo raggiunsero infine, nel medesimo luogo in cui aveva ucciso loro padre; la stessa radura.

Lo trovarono intento nel tentare di affilare la propria spada su un grosso sasso, che aveva spezzato su un lato.

Li accolse garbatamente:

-Oh, salve. Voi dovete essere i figli del Duca Lunare. Non ero sicuro del fatto che sareste venuti.

Il più sfacciato dei tre, Dusco, chiese: Non avete abitudine di levarvi l’elmo davanti alla nobiltà?

-Armatura e pelle, nel mio caso, sono quasi fuse insieme. Quest’armatura è il guscio che tiene insieme il mio corpo. È un equilibrio molto fragile. Se dovessi toglierla non credo che le mie ossa reggerebbero il loro stesso peso. La vecchiaia è una brutta malattia, e le sue cause, vale a dire il tempo passato e la scarsa volontà di morire, sono purtroppo ineradicabili. L’unica cura che pare funzionare è la morte, ma è una medicina che non tutti accettano.

-Smettetela di prendervi gioco di noi, o volete forse farci credere che i vostri bisogni li fate nella vostra armatura

-Non intendo stare qui a specificare in che misura questa armatura impedisca o meno la soddisfazione di certi bisogni. Mi limiterò però a dire che bevo e mangio molto raramente, quindi la questione, praticamente, quasi non si pone.

Disse Ramaruta: -Siamo venuti qui per vendicare nostro padre.

Rispose il cavaliere: -Questo vostro proposito legato al duello che intendete con me intraprendere è certamente più nobile di quello che animava vostro padre. Il duca lunare mi ha affrontato solo per mere questioni di fama e gloria, e probabilmente questo è uno dei motivi per cui ha perso. Chi invece duella per vendetta, ha quella spinta in più che può fare la differenza.

Concluse Daspa.

-Così sia allora, usiamo i ferri come pennelli per scrivere in rosso la parola vendetta.

I tre lo affrontarono in successione.

Il primo, Dusco, pazzo di rabbia disponeva di un grosso scudo chiodato ed una mazza anch’essa chiodata. Perse il fiato nel tentativo di colpire il vecchio, che sgambettando evitava i lenti ma potenti attacchi dell’uomo; dopo una lunga sequela di attacchi, Dusco, decise di tentare un approccio più difensivo, nascondendosi dietro il maestoso scudo.

Il vecchio gli disse: -La rabbia è così bella, ti riempie il cuore. Ma a volte è insufficiente e grossolana. Personalmente preferisco il freddo come genere, lento, inesorabile, e passa bene attraverso il metallo delle armature.

-Cosa significa? Non vi è rimasta nessuna forma di senno?

Dusco toccato dalle vuote e incomprensibili parole del vecchio si lanciò a capofitto, certo di colpirlo, confidando che le parole del vecchio fossero sintomo di pazzia inarrestabile.

Lo spostamento dell’anziano avvenne all’ultimo momento possibile.

Dusco rovinò in terra. Il cavaliere nero riuscì con precisione a piantare nell’elmo e negli occhi dell’uomo la propria spada, attraverso la feritoia.

I due fratelli restanti erano frastornati, ma non si persero di coraggio.

Seguì Ramatura, il più saggio dei tre, che tentò un approccio dialettico.

-Avete appena ucciso nostro fratello, usando la sua stessa rabbia contro di lui. Non vi sentite un po’ scorretto ad usare certi trucchetti?

-I trucchetti pagano una o due volte. Sopravvivere tanto a lungo, e portarsi appresso un simile bagaglio di morti, implica necessariamente l’avere altre risorse, diverse dai trucchi.

-Quindi ci tenete a rimarcare il vostro valore dichiarandolo chiaramente?

-Non ho nulla da dichiarare, tranne il fatto che ancora respiro. A differenza di vostro fratello, di vostro padre, e di tutti coloro che li hanno preceduti nella corsia dell’inferno di mia pertinenza.

-Come osate.

L’armatura di Ramaruta era un tesoro familiare. Bianca avorio, presentava in rilievo una rossa fiamma stilizzata. Era dotata di griglie metalliche accessorie volte a proteggere qualsiasi punto debole di snodo articolare, o feritoia visiva.

Utilizzò come arma l’alabarda del padre.

Si lanciò in combattimento ragionato, tenendo la distanza e mirando con precisione.

Il cavaliere nero utilizzo sia spada che scudo per parare e deviare i colpi.

Quando le distanze si accorciavano utilizzava semplicemente lo scudo per tentare di colpire contusivamente la testa di Ramaruta.

Il cavaliere nero parò e devio tutti i colpi del suo nemico, che seppur protetto da una inviolabile armatura, a forza di prendere botte sul capo si accasciò infine in terra.

Ramaruta perse conoscenza e dopo poco morì.

Il cavaliere nero sentenziò: -Bisogna fare attenzione alle botte sul capo. La testa sembra tanto dura, ma ci sono molti materiali più duri dell’osso, ed è molto facile divenire cadavere gettato in un fosso.

Daspa estrasse in fretta il suo fioretto.

-Avete ucciso i miei fratelli. Avete dimostrato quel che valete. Ma la vostra fortuna finisce qui.

Si tolse l’elmetto e sfidò con coraggio il cavaliere.

-Avete sfruttato a vostro vantaggio la pesantezza della armature dei miei fratelli, ma con me andrà diversamente, vi sconfiggerò con la mia velocità.

Daspa si lanciò a capofitto, lanciandosi in un affondo al collo del cavaliere nero.

Il cavaliere sorrise dietro al proprio elmo.

Daspa si trovò ad affondare nell’aria lasciata libera dalla schivata del cavaliere, che aggiratolo, lo decapitò in un secondo con un preciso fendente alle spalle all’altezza del collo.

-Non c’è alcun vanto nel morire concedendo al proprio avversario un vantaggio.

Il cavaliere si rivolse al paggio.

-Mi dispiace per questa seconda carneficina, ma come potete ben comprendere io ero semplicemente qui a farmi i fatti miei. Proprio come l’altra volta però, non per ordine ma come gentile richiesta, vi chiederei un compenso in denaro per il servizio svolto.

Il paggio pagò nuovamente.

Tornato al Castello del Duca Lunare raccontò ai nipoti del Duca cosa era successo per filo e per segno, e cercò di dissuaderli questa volta da ulteriori propositi di vendetta. Ci tenne a spiegare che le abilità del cavaliere nero erano assolutamente non comuni, e che non sembrava un avversario normale, sicuramente non alla portata di una manica di trentenni che seppur numerosi, non avevamo l’esperienza bellica di padri e nonno.

-Quel che abbiamo del nostro è la nostra gioventù. Siamo uomini in piene forze.

-Quel mostro sanguinario ci ricompenserà col suo sangue, per il danno arrecato alla nostra famiglia.

-È nostro dovere vendicare la nostra famiglia. Non potremmo in ogni caso gestire i loro fantasmi qualora decidessero di perseguitarci per via della mancata vendetta.

-L’errore dei nostri padri è stato quello di affrontarlo separatamente. Un mostro così scorretto va affrontato con scorrettezza.

-Giusto, giustissimo! Lo attaccheremo in nove tutti insieme. Non avrà scampo.

I nove nipoti erano figli dei tre fratelli da poco morti. Condividevano i difetti dei loro padri, ma non ne avevano alcuna virtù.

Se ne infischiarono delle parole del paggio e si recarono infine, insieme a lui, presso il luogo in cui era accampato il cavaliere nero.

Non ci fù tempo per convenevoli e discorsi. Caricarono tentando di sfruttare la sorpresa. Il più iracondo dei nove, Mezzofusto, provò a caricare da cavallo il cavaliere nero, solo da poco svegliatosi. Il cavaliere colpì il cavallo sul fianco, facendolo imbizzarrire e lanciarsi in carica contro un albero, rovinando in terra e rendendo Mezzofusto eutanatizzabile.

I restanti otto affrontarono il cavaliere nero in terra, consci del fatto che avrebbero dovuto collaborare per averne ragione.

Il cavaliere nero non poteva tirarla per le lunghe. Puniti sulla gola i primi due, gli altri si infransero nelle rispettive proprie paure. Il cavaliere nero sentiva la pietà pulsare nel proprio cuore. Proprio non se la sentiva di strappare quelle ulteriori vite per aggiungerle alla propria montagna mentale costruita coi cadaveri di quanti aveva ucciso. Tuttavia sapeva se che avesse esitato, quelli ne avrebbero approfittato. Si lanciò quindi a capofitto, per dare a ciascuno di loro una buona e veloce morte. L’ultimo rimasto, Gianlimone, chiese pietà. Disse che avrebbe lasciato la famiglia e sarebbe sparito. Disse testualmente:

-Muore qui in questo campo di battaglia il mio onore oggi, ma non farmi morire come uomo, te ne prego. Lasciarmi respirare ancora un poco. Fammi fuggire.

Donò al cavaliere nero armi ed armatura e fuggì. Il cavaliere nero non ebbe di che protestare.

Aiutò Mezzofusto a volare in cielo.

Guardando i corpi disse al paggio: -Con tutto questo sangue chissà che floridi alberi da frutto verrebbero fuori in questa radura.

Il paggio versò il corrispettivo.

Tornato al castello raccontò che il corpo di Gianlimone era stato mangiato dal cavallo del cavaliere nero, per giustificarne l’assenza e per non farlo passare per un vile.

Disse inoltre che era stato un grosso errore del gruppo dei nove perservare in quel proposito di vendetta.

I ventisette figli dei nove nipoti del cavaliere lunare erano estremamente addolorati per la morte dei loro padri, ma al contempo erano consci dell’effettiva lassezza morale e del basso valore dei loro padri.

Adolescenti o poco più, decisero che si sarebbero recati tutti insieme dal cavaliere nero, dopo essersi consultati tra loro, senza restituire nessuna informazione circa le loro reali intenzioni.

Le madri, le sorelle, le nonne, le zie e tutte le varie ramificazioni della famiglia piansero la loro partenza. Con la loro dipartita la casata si sarebbe definitivamente estinta, Qualcuno dei 27 aveva già dei figli, ma senza padri, e con una casata in rovina, i pargoli, eredi residuali, sarebbero certamente finiti male, col vuoto di potere insidiato da qualche famiglia di secondo livello che sicuramente si sarebbe approfittata della situazione. Gli eredi diretti indifesi sarebbero diventati facilmente trucidabili.

I ventisette, infine, sempre accompagnati dal paggio, si presentarono dal cavaliere nero, che li accolse calorosamente:

-È bello questo gioco della vendetta, ma siete troppo giovani per farcela, pur affrontandomi in ventisette. Anche se voi aveste ottantuno figli in tutto, tre per ciascuno di voi, dopo la vostra dipartita ci vorrebbero almeno altri quindici anni per far si che mi possano affrontare decentemente. Fra quindici anni io sarò sicuramente morto, quindi può darsi che questa faida finisca qui e oggi. Sarà la mia stessa vecchiaia a vendicarvi.

Il nipote di Ramaruta, tale Sconsapevole, guidò il gruppo dei ventisette, facendosene portavoce:

-Abbiamo seppellito i propositi di vendetta, insieme a quelli dei nostri padri e nonni. L’onore è importante come il sangue, ma la sopravvivenza del casato vale più dell’onore del casato. Non lasceremo le donne del casato diventare preda di uomini rapaci provenienti da casati da quattro soldi. La nostra richiesta è ben diversa. Salveremo la famiglia larga.

-Quindi non siete qui per farvi macellare tutti insieme mentre cercate di piantarmi una spada nel corpo?

-Al contrario. Siamo qui per chiedervi di seguirci al Castello, e divenire maestro d’armi del nostro Castello. Avreste una casa e la considerazione degli abitanti di tutto il borgo.

-Ed il risentimento di quanti piangono le morti dei vostri genitori, nonni e bisnonno?

-Non importa nulla. Il paggio ci ha detto che non siete mai stato sleale, e che vi siete in fin dei conti sempre limitato a difendervi, lottando unicamente per mantenere l’interezza del vostro corpo. Accettate quindi la nostra proposta?

-Posso accettare. Ma vi propongo un altro tipo di duello, quello di cercare di comprendere l’insegnamento morale dietro tutta questa faccenda. Per chiarezza vi dirò che avete tentativi infiniti, ma nell’arco di tre giorni probabilmente cambierò aria per un po’, in ragione della mia natura di cavaliere errante.

I ventisette si accamparono e ragionarono lungamente sulla faccenda.

Il paggio rimase in disparte, intristito per quello che era successo fino a quel momento, ma anche rasserenato per l’inaspettata svolta prodotta dalla sete di discontinuità di questi giovani.

Ci provarono, ci provarono davvero a dare un senso a quelle morti:

-Insegna che la vendetta non porta a nulla di buono.

-Insegna che inseguire la gloria è spesso pericoloso e non porta a nulla di buono.

-Insegna che l’esperienza maturata su un campo di battaglia supera il valore degli equipaggiamenti.

-Insegna che un titolo nobiliare non rende un uomo più valido d’un altro solo sulla base del titolo stesso.

-Insegna che un uomo che non ha paura della morte non è ricercato da essa.

-Insegna che un uomo che non ha nulla da difendere può agire in totale libertà ed essere quindi maggiormente efficace.

-Insegna che agendo secondo virtù ed etica si viene infine ricompensati.

-Insegna che l’esperienza, fintanto non viene intaccata la memoria, è davvero un tesoro.

Vennero formulati questi ed altri numerosi tentativi di interpretazione della vicenda nell’arco dei primi due giorni.

All’alba del terzo giorno i ragazzi si arresero e chiesero di poter avere l’aiuto al paggio.

Il cavaliere acconsentì.

Il paggio indovinò a colpo sicuro, limitandosi a dire: -Tutta questa faccenda insegna solo che… Al cavaliere nero non gli devi cacare il cazzo.

Tutti i giovani cominciarono a ridere, e rise lungamente anche il cavaliere nero. Quelle risate, in maniera assolutamente innaturale e insensataa, riuscirono ad attenuare il ricordo di quella breve ma sanguinosissima faida.

Il cavaliere nero divenne infine maestro d’armi, preparando alle arti della guerra ciò che rimaneva della progenie del cavaliere bianco. Gli appartenenti alla linea di sangue femminili (i figli delle sorelle della progenie del cavaliere bianco) decisero di chiamare la linea di sangue cadetta “cavalieri della luna nera” cercando sintesi tra il loro sangue e la vena culturale appresa dal cavaliere nero.

Vissero tutti, quindi, alla fine, felici e contenti, seppur nel contesto di un periodo storico in cui duelli e fatti di sangue erano circa all’ordine del giorno.