Un inno al perdersi (cit.)




La solita strada. Imparata a memoria. Breve, quasi brevissima. Complicata da qualche curva di troppo, dossi ben distribuiti, ed il lato della strada camuffato dalla vegetazione arbustiva, tenuta “in ordine” unicamente dai corpi metallici delle auto in movimento.

L’obiettivo era miserabile. Nessun vero appuntamento con nessuno. Solo la pretesa, consolatoria, che verso il mare si sarebbe potuto incontrare qualcuno, più per sbaglio che per altro.
L’alternativa era il paese, ma il cambio degli usi e dei costumi l’aveva reso un accampamento vuoto. Solo ventenni inconsistenti pompati di cocaina e coi propri contenuti tutti evaporati. Le altre persone significative sarebbero arrivate ad agosto, col turismo di massa. La scelta di K. lo aveva portato ad optare per la bassa stagione, le ferie intelligenti, con il loro carico di grandi spazi di vuoto da dividere col minimo possibile di umanità.
L’altro lato della medaglia era quella secondaria solitudine.

Così, infine, dopo aver caldeggiato comunque l’ipotesi di rimanere a casa a rileggere un romanzo distopico, si arrese ai propri doveri verso la propria vita sociale e si diresse ad est, verso il mare.
L’estate precedente, dal ritorno dalla ferie, si era vantato con gente di città che insieme ai suoi amici paesani giocavano a fare quelle strade abitudinarie di notte da bendati, in ragione dell’assoluta conoscenza che si aveva di quelle strade, percorse decine di migliaia di volte. La ripetizione rende perfetti, fintanto non arriva la vecchiaia a indebolire il corpo e i sensi, o finché non arriva la noia terminale che suggerisce a bassissima voce di invertire le curve al fine di movimentare il tragitto con deviazioni coatte verso ospedali o cimiteri.

K. si preparava a visitare la tomba della speranza, per orinarci sopra; tuttavia il tempo non era ancora quello giusto. Proprio non ce la faceva a rassegnarsi al fallimento dei vari obiettivi che si era dato. Non era in grado di approcciarsi razionalmente ai problemi se erano di carattere relazionale e se erano in un ambito extra-lavorativo. Nella sua nuvoletta personale di complessi di superiorità aveva una grande paura di manipolare gli altri. Ma negli spazi di soliloquio comunque si lamentava con sé stesso di quanto fosse marginale il livello di apprezzamento, affetto e calore che riceveva. La risposta però era sempre quella giusta: -Se non ti impegni un cazzo a mantenere i rapporti con gli altri, non è solo arrogante avere la speranza che ci pensino gli altri a mantenerli con te, ma proprio francamente fantascientifico.
La risposta era comunque consolatoria, poiché esisteva comunque la possibilità che fosse rimasto così solo malgrado tutti gli sforzi fatti per tenersi gli altri vicini. Si sentiva di escludere questa seconda possibilità in ragione della sua illimitata pigrizia e della comodità dello scranno di principe-genio autoproclamato, seppur a bassissima voce.

Avrebbe voluto fumare una sigaretta vera. Non per il sapore, non per la nicotina, ma per quel sottile desiderio di morte che avrebbe soddisfatto. La piena consapevolezza di stare assumendo delle sostanze dannose, aldilà dell’aspetto edonistico della sostanza. Più per la combustione in sé, per l’altissimo livello di ossidazione e di reattività di quei composti che avevano perso nell’ossigeno di quella mezza brace un pezzo di loro. Una micro-rata di un articolatissimo suicidio rateizzato, nel contesto di un mutuo molto più che trentennale.

-Alla peggio se la scampo paga comunque il SSN, sennò le tasse a che cazzo servono. Ma non è oggi il giorno giusto per ricominciare a fumare per l’ennesima volta.

La soluzione dei suoi problemi sarebbe stata un mondo con donne molto brutte. Pance cadenti, occhi infossati, nasi e menti telescopici, sederi amorfi, seni cadenti o piatti. Un mondo di donne non depilate, un mondo di donne coi capelli sempre sfatti, untuosi ai limiti della possibilità di ricavarci del combustibile. Un mondo di donne che non basano il proprio essere persone sulla loro appetibilità. Un mondo di donne dove un uomo può anche tranquillamente dire: -Sentite, gentilmente, andatavene tutte affanculo, in tutta tranquillità.

Una persona che non ha mai provato l’eroina magari sente il bisogno di stordirsi, di evadere, di sparire, ma non di farsi una spada sapendo l’esatto effetto dell’eroina. Il ragionamento è lo stesso, ma non è valido se non come speculazione funzionale al darsi un tono cinico-maschilista-cripto-vittimista. Una prospettiva terminale propria di quelli che nei paesi anglosassoni vengono definiti “incel”, ovvero zitelloni in Italia.

La radio non proponeva nulla di buono. Addirittura il pop italiano stava diventando preferibile al falso alternativismo impegnato. Il resto del menù era apparecchiato con giovani con tanta saliva in bocca che si esprimevano in neo-lingua vantandosi di quanto si drogassero o scopassero, ma con una tremenda nota maledetta di lamentela. K. sapeva quello che era giusto fare, anche se si sarebbe trattato di essere accusato di essere uno di quei vecchi qualsiasi che inneggiano ad una fantomatica “golden age” pregressa rispetto a cui la modernità attuale è spazzatura. Non gli interessava. Abbracciava il clichet. Immaginava plotoni di esecuzione in cui i suoi ex compagni di scuola sparavano con armi caricate con proiettili di gomma a tutti i colpevoli di quell’abbrutimento socio-culturale, in piedi davanti ad un lungo e continuo muro di qualche scuola superiore, magari decorato con un murale con l’orso Winnie the Pooh, vestito da poco raccomandabile spacciatore, con una giacca di pelle piena di siringhe pre-confezionate, e con la didascalica tag Winnie The Pusher. Un pezzo di Neo-stato, in quel frangente immaginativo distopico, poteva colmare l’errore di una istituzione di un Vetero-stato. Lo scopo non era di ucciderli, anche se quella era una eventualità. Si trattava solo di accumulare il massimo numero possibile di ematomi su quei corpi già emaciati, nella speranza che dove si fermavano inevitabilmente le parole potesse comunque passare un messaggio espresso in svariati joule di energia impressi in quelle munizioni di gomma.
K. sapeva bene quale fossero le colpe della sua generazione. Non avevano passato il testimone. Ma a quei tempi, dieci anni prima, si erano tutti inevitabilmente lasciati sedurre dal fascino delle macchine connesse tra loro e con le persone. Si erano arresi alla facile soddisfazione delle conferme altrui mediate da algoritmi che orientavano la visibilità di ciascuno. Il macchinario infine aveva vinto, ed aveva distrutto la società. Telefonetti di merda come dipendenza del secolo, del millennio, socialmente accettabile. Vezzo simboleggiante l’importanza che ciascuno poteva avere, tanto per le proprie opinioni, quanto per il proprio aspetto o per i propri prodotti culturali. La globalizzazione aveva vinto arando le varie sottoculture, e proponendo le proprie, ibride, inconsistenti, povere di peculiarità. L’incontro culturale non è detto che arricchisca, o non è detto che arricchisca tutti in egual misura. Il “meltin pot” mondiale, gestito da macchine Californiane, aveva miscelato tutti i colori esistenti, restituendone solo uno: il marrone, proprio come scoprono i bambini quando mischiano tutte le tempere.

Il modo giusto non c’era. Non c’era più. Il futuro era un loop dove commettere sempre gli stessi errori. K. In qualche modo però si sentiva cambiato, si sentiva più efficace in qualche modo, sentiva di avere uno sguardo finalmente tagliente e nocivo, ma pensava che quel che ci fosse di perso fossero proprio le occasioni. Si era giocato malissimo tutte le sue carte.

Quei pensieri tuttavia nel loro complesso erano troppi per quelle poche curve e quel paio di rettilinei. Fece caso, uscendo dal flusso di coscienza, al fatto che fosse passato troppo tempo da quando aveva preso la strada per il mare. Il fatto di avere ascoltato in loop Blue Monday non lo aiutava ad avere un mezzo per misurare il tempo che era trascorso. Poteva averla ascoltata tre come dieci volte, ma quella strada anche di notte si percorre comunque in meno di sette minuti. Non sarebbe dovuto arrivare nemmeno al termine della canzone, invece la aveva già ascoltata diverse volte.

Capita di perdersi.
Perdersi nel pre-sonno da nervosi.
Riesaminare precedenti passati discorsi ruminando.
Dandosi e dando ai pregressi interlocutori risposte diverse, più brillanti, più acute di quelle che si sono date nel passato reale, o quantomeno in quello registrato nella memoria.
Proiettandosi in un futuro inconsistente in cui, con quelle parole finalmente trovate, riusciamo a vendicarci dei torti subiti, a mettere in luce le colpe degli altri, in cui riusciamo ad essere completamente onesti con gli altri provando ad essere onesti con noi stessi.
Un futuro friabile che si perde nell’addormentamento, e di cui non rimane che un’eco sgretolata al mattino dopo. A volte quelle fasi di tormento notturno, che paiono perdute, sono il seme su cui effettivamente poi nel futuro reale i discorsi si costruiscono da soli, autoassemblandosi. Le parole davvero trovano espressione, subitanea, fulminante. Mitragliatrici che lasciano gli avversari sgomenti e impreparati. Proiettili che impattano sui punti deboli dell’avversario, tutti completamente esposti. Troppe parole e troppo giuste per poter essere davvero pensate e pronunciate in quel futuro. Affettive, ma senza il dolore che ha accompagnato quel tipo di parto verbale. Il dolore di quella espressione, è rimasto fermo e bloccato in un pre-sonno lontano, di leggere o pesanti insonnie. Senza zavorre quei colpi partono leggeri, ma impattano con forza. Il loro peso è a carico intero di chi le subisce.

Una fase di primavera o d’autunno, dove taluni risentono troppo del cambio di stagione per potersi permettere il lusso di crollare come sassi nel letto, e sfruttano ogni zanzara, o ogni leggera intemperia o prurito, per giustificare la propria insonnia, e sfruttarla per un arcano rituale di ascensione, il ruminio o il rimuginio, il mezzo attraverso cui ci si può illudere di trovare le proprie soluzioni, il mezzo attraverso cui ci si farcisce la propria colecisti fino a provare a farla esplodere. Il dramma non è il detto o il fatto prima, ma il non detto ed il non fatto prima. Tutte le inazioni che conducono invariabilmente a quel presente di miseria da cui ci si deve emancipare, attraverso la trappola della speranza, proiettati verso un futuro di gloria o perlomeno di rivalsa. Darsi significati, darsi valori.
Provare a limare gli attriti che il fare rango con gli altri produce. Il dramma della socialità e delle sue convenzioni. La ricerca dell’antidoto nell’anti-socialità medesima, foriera quanto la prima dello sviluppo umano, perlomeno nelle società di razziatori. La socialità diretta verso il progresso sensu-stricto, l’anti-socialità votata alla sopravvivenza, terreno per il progresso potenziale, e per la supremazia, una volta maturo un mondo di naturale e crudele competizione. Per la verità, inaccettabili entrambe. In conclusione: tristi oceani di miseria che usiamo per definire i nostri confini, come fanno le terre emerse che chiamiamo continenti.

Non c’è niente di meglio dei discorsi che si scrivono da soli, perlomeno quando conservano coerenza e coesione anche quando vengono riletti a distanza di tempo.

-Se non ti ricordi di chi sei, puoi sempre provare a ricordare cosa hai, chi conosci, cosa hai fatto, dove sei stato e con chi eri. Una volta che hai un minimo di contesto, come quello proposto in questo poco testo, puoi anche aggiungere una pennellata di colore, provando a mettere in evidenza quantomeno il come stavi, riducendolo a due sole grandezze: contento o meno. Il contento è traducibile scorrettamente con soddisfatto, anche se chiaramente non sono sinonimi. Uno che va per il sottile potrebbe provare a spiegare la derivabilità di una cosa rispetto all’altra, ma il mio compito non è questo. Non sono qui per una spiegazione, quanto per una introduzione.

Il flusso di pensieri palesatosi a K. Nell’atto di guidare sovrappensiero non aveva assunto la dimensione di franca allucinazione uditiva. Tuttavia, anche se non chiaramente udito, un flusso di pensieri può non essere attivamente pensato. Si può aggregare come flusso pensieri autonomi, autonomamente organizzantisi. Una parte scissa che si muove da sé. Quello che dovrebbe succedere nelle psicosi. Un pezzo di sé, esternalizzato impropriamente. Un pezzo di sé, messo da parte, che si fa vivo. Esternalizzato nel senso di emerso da sotto terra, e facentesi strada nel campo di coscienza.

Per dire cosa di così profondo?

-Per dirmi cosa di così profondo? Per introdurmi a cosa o per introdurre cosa?

-Ti sei perso, te ne sei già accorto. Anzi, per esattezza si è persa la strada, tu non hai sbagliato affatto. Tu hai continuato nel verso giusto, non hai preso nessuna uscita sbagliata. Lo sai, te ne saresti accorto. Si deve essere sbagliata la strada. È troppo trafficata in questi giorni, durante il giorno. Potrebbe essere uno sciopero, o una qualche altra forma di ribellione poco chiara.

-Non credo. Non è possibile. Devo avere sbagliato strada io. È possibile. Mi è successo altre volte in passato.

-No, ti sbagli dicendo che sbagli. La strada è quella giusta. Non è un’altra. Non è semplicemente familiare. È proprio quella, è quasi la stessa. Ci sono delle differenze dopo alcune curve, sicuramente è in loop.

-Ho superato il depuratore da troppo tempo. Non si è mai ripetuto. Si sarebbe dovuto ripetere se fosse un vero loop. Non credi?

-Non credo per niente. Non credo che le cose debbano andare nel modo sbagliato seguendo una tua logica. Se le cose vanno nel modo sbagliato lo fanno e basta, e lo fanno a modo loro.

-Assumendo che tu abbia ragione io che devo fare?

-Tra una cinquantina di metri rallenta e fermati, non sei l’unico che si è perso.

-In che senso?

Smise di rispondere.
Non c’era più spazio.

Un uomo sulla quarantina andante, vestito in modo iper-giovanilista come un ventenne, ed allo stesso tempo da quarantenne punkabestia pentito, trascinava uno scooter mal messo sulla strada buia. Luci spente, quasi invisibile. Se non messo in guardia dai suoi stessi pensieri K. Avrebbe potuto addirittura investirlo, così poco abituato in quel contesto alla possibilità di incontrare anima viva. Lo riconobbe. Lo conosceva, seppur a stento e quasi solo di nome. Avevano parlato varie volte, in diverse serate, anche quella estate. Uniti nelle conversazioni solo da una solitudine di fondo, e da differenti livelli di emarginazione rispetto al contesto: il protagonista avvelenato di odio e risentimento per quel tempo sconsolato, ed il ragazzo o il signore in scooter, semplicemente un tossico noto per essere un tossico.

-Ti ha lasciato per strada?

-Oh tu sei, meno male che è passato qualcuno. Non passava nessuno.

-È da tanto che cammini?

-Sì, ma mi sembra di non arrivare mai, è quasi un’ora che cammino, forse di più.

-Tranquillo, è quasi normale.

-In che senso?

-Molla lo scooter, andiamo verso il mare in macchina. Ma non ti posso garantire che ci metterai meno tempo che a piedi. Però almeno non ti stanchi a cazzo. In questo contesto la macchina non sembra comunque soggetta al consumare gasolio, quindi…

-In che senso?

-Sali e basta. Ci prendiamo due gassose al porto e poi ce ne torniamo affanculo.

-Va bene.

In macchina il tizio ebbe di lamentarsi delle sue disgrazie personali, dei suoi recenti e passati fallimenti, dei passi da gambero, della recidiva parziale, della sua mancata capacità di svincolo dal problema. Mise qualcuno in croce circa le responsabilità che poteva avere nella sua personale vicenda, e ringraziò qualcun altro che aveva invece provato ad aiutarlo. Il guidatore disse la sua sul problema, e si espresse anche in merito a questioni puramente farmacologiche, esprimendo una serie di pareri standard di buon senso, ben argomentati, con relativo trasporto affettivo, ampiamente riproducibili a comando, detti sottovoce dal più profondo fondo del pozzo della rassegnazione consapevole, quella da cui si può comunque avere speranza, pur senza nessun tipo di aspettativa. Copione standard, interpretazione accettabile.

-Sai, mi sono trovato a pensare a lungo a come rispondere ad una ragazza. Le spiegavo che non potevo più permettermi di sentirla. Le spiegavo che mi sentivo enormemente vulnerabile con lei, e che non volevo e potevo più sentirmi così. Le dicevo che non volevo avere un punto debole del genere. Cercavo insomma di abbandonarla nel modo più dolce, emotivo, affettivo e comprensivo possibile. Si giustificava, e poi mi chiedeva spiegazioni circa questa mia scelta. Le rispondevo che il problema non era lei in sé, ma la mancata corrispondenza e la mancata relazione tra di noi. Era l’unica cosa giusta da fare per me, l’unica scelta che potessi permettermi di fare.

-Alla fine è andata bene?

-No. Non è andata proprio. Non è andata nel senso che era lei che aveva abbandonato me. Non era più tornata a cercarmi. Mi ero trovato a pensare a come risponderle perché probabilmente volevo qualche tipo di centralità rispetto a lei. Avere ancora un cadaverino di relazione, un qualche ponte, un qualche legame, e possibilmente, se proprio andava recisa la cosa, volevo ritagliarmi io la posizione di quello che taglia il ramo secco. Vivere il dramma dell’abbandono agendolo. C’era un altro, non ero più il centro caldo del suo mondo, e realisticamente non lo ero mai stato.

-Lo avevi già capito?

-Anche un detective bravo, uno dei migliori diciamo, a caso praticamente risolto può decidere di mischiare le carte ed annullare i rapporti di causa e di effetto per non accettare la realtà compresa o intuita. È una forma di auto-manipolazione per tenere accesa la speranza, pur nella certezza parziale del fatto che la speranza sia una trappola. La speranza ti avvelena, tiene vivo il desiderio, non ti fa guardare di lato e neppure indietro. Ti fa mettere da parte il resto, ti permette di ignorare il tempo. Ti fornisce un orizzonte chiaro verso cui camminare, proprio come stiamo facendo ora. Camminiamo spediti verso una meta chiara su una strada che dovremmo conoscere, ma non arriviamo mai. Il dramma dell’abbandono andava vissuto agendolo a mia volta.

-Invece sei stato… agito?

-No. Niente. Niente di rilevante. A volte l’estate sparisce senza acquazzoni, anche se non è la regola. Va via il caldo un po’ alla volta, e poi magari le piogge vere le vedi a ottobre. Nel frattempo la sera si fa strada un certo freschetto. All’inizio la prendi anche bene perché ti libera dal caldo opprimente.

-Ho capito, ma… fino ad un certo punto.

-L’esempio è sbagliato. La metafora non c’entra niente. Bisogna solo accettare di essere abbandonati. Di non essere eventualmente sufficienti. In prospettiva bisogna investire meglio. La metafora giusta è quella della Borsa. Se le azioni sono in calo perpetuo e continui ad investire, salvo complesse manovre di aggiotaggio, vuol dire che sei un coglione che brucia soldi, o un masochista, o qualche altra cosa che in merito al contesto economico non saprei definire, ma che magari ha senso in termini di elusione fiscale.

-Ti ho seguito fino a investire, dopo forse ti sei un po’ perso.

-Perso di continuo. Ho dato un significato sbagliato ai silenzi. Non ho dato loro nessun significato, mentre invece il contenuto giusto era facilmente attribuibile, così banale da essere ignorabile. Abbiamo parlato parecchio. Troppo. Saremmo dovuti già arrivare al mare, no?

-Sì. Ma va bene anche così. Parlare in uno spazio illimitato di tempo. Finché abbiamo qualche cosa da dire.

-La disperazione ci fa una gran corte se diamo un valore ad uno spazio/tempo così fermo e bloccato.

-Mi dispiace per… questa cosa insomma.

-No, non ti preoccupare. Ti ringrazio ma… non volevo consolazione. Volevo solo potere dire questa cosa in uno spazio/tempo apparentemente così bloccato e fermo, che così tanto somiglia al pre-sonno, e così tanto ricorda una sepoltura o una sigillatura.

-Nel peggiore dei casi tra un po’ farà luce.

-L’orologio che ora segna? O è fermo anche quello?

-Sono le 4:00.

-Io sono partito da casa alle 23:00.

-Con la luce poi guarda che magari la strada la vedi meglio, e forse capiamo dove stiamo sbagliando.

-Io volevo una gassosa di notte, non una gassosa all’alba.

-Se vuoi ti giro una sigaretta.

-No, grazie. Non posso più fumare. Il fumo naturale mi chiama la sinusite, e poi sono fregato. Non voglio rovinarmi la vacanza.

-Mi sembra che stai già facendo tutto il possibile per rovinartela.

-Hai detto proprio bene. Ma magari a settembre questa serata me la ricorderò come molto più bella e divertente di come ce la stiamo vivendo.

-Sai forse cosa sbloccherebbe la situazione?

-Cosa?

-Trovare i resti di un incidente stradale.

-Non credo. Il telefono inoltre non prende un cazzo. Senza soccorsi non penso che saremmo di grande aiuto.

-In un mondo con poco senso possiamo provare noi ad inserirne un po’.

-Di senso?

-Sì.

-Vabbè, se non altro tu sai prendere una vena facilmente.

L’altro non rise, come il guidatore per una frazione di secondo si sarebbe atteso.

K. improvvisò per smorzare l’imbarazzo.

-Ti dispiace se tento la guida sportiva?

-L’ultima volta che ci siamo visti non mi avevi detto nell’ordine che: (1.) non sai guidare, (2.) devi cambiare le lenti degli occhiali che risalgono a cinque anni fa e sono completamente abrase, (3.) di notte non vedi un cazzo?

-No, non è che non vedo niente, è solo che se mi viene una macchina di fronte con gli abbaglianti effettivamente non vedo un cazzo. I primi due punti invece sono giusti.

-Malgrado queste cose non mi sembra che abbiamo tanto altro da perdere. Quindi fai pure.

K. ci provò. Alla fine si trattava di strade che diceva di poter percorrere anche da bendato, farlo di notte ad occhi aperti era comunque un po’ più facile.

Affrontò tutte le curve in maniera eccellente, spingendosi sempre più in là in termini di spinta dell’acceleratore e risparmio di frenata. Andò avanti per un bel po’, per ore.

L’altro ad un certo punto gli disse:
-Sarà forse il contesto così protetto, ma il punto numero 1 mi pare che tu lo possa mettere in discussione. Come voto ti do un 10b.

K. non entrò nel merito della b dopo il 10. Di solito era abituato a prendere voti molto più bassi dalla sorella e dalla cugina, anche al di sotto dell’1.

-No, vabbè… in larga parte è merito della macchina. Se avessi ancora la Punto saremmo già morti da un pezzo.

Una discesa però fù troppo netta, K. lo capì e frenò di colpo. La riconobbe, ampio tornante in discesa, con alla fine il triangolo del parcheggio. Erano arrivati. Era l’alba.

Il bar purtroppo era chiuso.
Aspettarono una mezz’oretta su una panchina.
K. cedette, fumò una sigaretta.
Poi il bar aprì.
Presero un caffè, e dopo un po’ anche una gassosa.

-Siete mattinieri oggi, ah?
Chiese il barista.
-No guarda, siamo partiti ieri verso le 11 di sera.
-Ah, e da dove siete partiti? Bologna? Ancona? Pescara?
-Lassamu perdere.