Il Vincistocazzo.

Le regole del gioco.

Un pochino prima delle elezioni europee, un personaggio abbastanza di spicco all’interno del governo decise, per massimizzare il proprio consenso in chiave personalistica, di indire un concorso a premi su internet. Il regolamento prevedeva che totalizzando un certo numero di punti si potessero sbloccare delle ricompense, sotto forma di benefit di varie tipologie. I punti si accumulavano condividendo meta-materiale di promozione politica o esprimendo piena condivisione nei confronti dell’operato del partito di governo. Occorreva dare massima condivisione ai pensierini del capo politico, o esternare la propria approvazione mediante la moneta del gradimento o con commenti di sostegno. I benefit che si potevano ricevere in cambio erano tanto miserabili, quanto appetitosi. Si poteva vedere condivisa la propria foto sugli account di partito, come forma di riconoscimento per il proprio operato; un gagliardetto d’altri tempi, ma un gagliardetto pubblico. I maggiormente meritevoli invece potevano addirittura vincere una telefonata col capo-partito o, in casi davvero eccezionali, potevano addirittura prendere un caffè con lui e chiacchierare del più e del meno, dandosi di gomito come se fosse un normalissimo amico del bar con cui coalizzarsi per combattere vari e numerosi nemici. Il linguaggio condiviso tra Capitano (il capo-partito) e la sua gente era compresso tra il triviale, il volgare ed il qualunquista. Tutti venivano accettati all’interno di questa grande famiglia, purché ne condividessero la linea, fossero cittadini Italiani e riconoscessero nel leader una vera e propria figura paterna. Era sufficiente ingoiare a naso chiuso il nettare della paranoia verso gli stranieri, e l’astio per l’opposizione, i cosiddetti professoroni di sinistra: un’unica colata al cui interno si poteva identificare qualsiasi germe di dissenso verso il partito di governo; venivano qualificati come troppo benestanti per essere vicini ai problemi della gente, riccastri con la puzza sotto il naso, tossici che si facevano di cultura per finalità meramente narcisistiche.

Non contava quasi nulla l’essere, in seno a quel gruppo ed in generale in quel momento storico; quanto al sembrare invece il discorso era completamente diverso.

In molti si iscrissero al gioco. In fin dei conti era richiesto semplicemente di  interagire con i vari account di propaganda del partito, La Sega, acronimo di Secessionisti Eccentrici Garanti delle Autonomie; gli oppositori più pragmatici si limitano a definirlo come il partito della paranoia. Un governo a regia mediatica, con un montaggio nazional-popolare, almeno quanto una Uno bianca a inizio anni ‘90. Ai più non sembrava vero di poter avere un contatto reale con l’eroe di faisbec, che dal vivo si poteva vedere solo sui tanti palchi dove interveniva ad aizzare la folla. Non più uomo ma simbolo, vessillo, blasone, e poi insomma, vabbè… brand.

L’andazzo generale.

Da un punto di vista del bieco leaderismo, il Capitano aveva surclassato il precedente cavaliere nero capitalista. Il suo predecessore, in seno alla coalizione delle destre, aveva un partito azienda alle spalle, e vendeva patinati sogni di grandezza e gloria per tutti. Il Capitano, da canto suo, prometteva invece di scongiurare l’incubo dell’invasione e della sostituzione etnica; più che promettere la grandiosità prometteva al popolo la restituzione del maltolto; un miserabile Zorro con la pancia pendente, ma malgrado tutto aveva davvero il popolo dalla sua invece. Richiamava Mussolini per tanti aspetti, ma era anche un po’ pacioccone, smusso, così mediocre da non riuscire a suscitare invidia ma pressoché solamente identificazione, almeno all’interno del proprio elettorato. Si rifaceva a tradizione e famiglia. Di famiglie ne aveva avute diverse, in quel senso era un esperto. Il modello di famiglia che intendeva vendere era assimilabile ad una classica pubblicità della mulino bianco, solo che invece del cacao sui biscotti ci avrebbe restituito piuttosto qualche farina di immigrato. Ogni parola della sua narrazione era studiata da avvoltoietti in giacca e cravatta, laureati in qualche università per spaventapasseri, specializzati in pubblicità, edulcorazione, propaganda, mistificazione e narrazioni tossiche. Il suo entourage studiava i comportamenti del popolino su internet, per capire come si muovevano gusti e interessi della gente, in un dato istante, e l’opinione del leader veniva sintonizzata sul sentimento comune, di modo che il Capitano rispetto alle quisquilie pop potesse essere sempre dalla parte del popolo. Perennemente dalla parte del giusto a proposito di ciò che succedeva nella casa del Grande Fratello, ai movimenti del calcio-mercato, all’andazzo dei festival canori, al dramma dei cani abbandonati in autostrada, e così via dicendo. Il suo ruolo pubblico, in seno all’immaginario diffuso, veniva curato come quello di qualsiasi altra pop-star, rock-star, rap-star o trap-star; come quello di uno scrittore alla moda, o di un influencer, o di uno di quelli sportivi con troppa personalità.

Il mondo era cambiato in poco tempo. In qualche anno persone completamente disinteressate alla politica avevano trovato la loro ragion d’essere nel seguire il Capitano. Vite prive di qualsiasi fede, tranne quella calcistica, erano state riempite. Una serie di appartenenze facili. Italiani, sovranisti, nemici degli immigrati, nemici degli amici degli immigrati. L’altro alleato di governo, il Partito Complottista, da un punto di vista mediatico aveva spianato la strada al Capitano, promuovendo l’internet come il luogo delle verità assolute, e dove ciascuno, anche il più miserabile fallimento del sistema formativo, poteva dire la propria, essere incisivo, cercare consenso, cercare alleati nell’odio.

Non era male avere qualcuno su cui scaricare le colpe. Era fin troppo comodo avere nella propria cameretta un bersaglio a cui tirare freccette per lenire il peso dei propri fallimenti. Era tutto apparecchiato, il Capitano chiedeva solo di credergli e di dar a lui fiducia. Non bisognava fare troppo. Solo votarlo e sostenerlo sul campo di battaglia dei social, bar del villaggio globale, luogo di notizie false, di cazzate gonfiate, di livore, di parolacce, di odio, di insulti, di bullismo, di violenza, di barbarie, di ferocia, e perché no, di induzione al suicidio. I bagni di sangue erano assimilati al gel pulente perfetto. Lavare via le colpe individuali attraverso la creazione di un oggetto d’odio comune, in seno ad una libera piattaforma d’odio. L’odio era il principale collante di questo enorme ed amorfo blocco sociale che andava configurandosi. Il sistema delle ricompense si inseriva su un solco decisamente già ben segnato.

Un buon infiltrato.

Un ottimo infiltrato. Un meta-infiltrato. L’infiltrato, era contenuto nel corpo di un fan qualsiasi del Capitano. Quella coltre di desideri, di sostegno cieco, e di immedesimazione, erano stati patogenici per numerose persone, che si erano riempite di tale fanatismo come taniche di benzina. A riempirsi di troppi significati esterni in blocco, tuttavia, si corre il rischio di dimenticarsi di chi si è. Talvolta, per liberarsi da questo tipo di controllo, occorre agire in maniera istintiva. L’infiltrato vero era la formazione reattiva in seno ad un fan qualsiasi. Una grossa ipercompensazione latente, in attesa di esplodere, come quei famosi botti di Capodanno che la mattina del primo gennaio rendono i bambini non più in grado di giocare alla Playstation in maniera competitiva, cancellando rapidamente la residue euforia dei regali avuti per Natale.

Stocastico a pressione il fan del Capitano. Vittima di se stesso e col potenziale bellico di una scheggia impazzita.

Un fan vero. Uno che lo seguiva da molto prima del vincistocazzo, ma comunque non un vero fan della prim’ora. L’aveva conosciuto durante la marea pubblicitaria su faisbec, diciamo un fan di mezza ondata. Si era gradualmente innamorato del personaggio. Lo sentiva fortemente affine a sé, o meglio, al suo sé ideale. La sua visione del Capitano era sostanzialmente quella condivisa da molti, ed in linea con ciò che tale leader politico lasciava trasparire dai suoi social.

Il Capitano restituiva un’immagine sobria di se stesso, era uno che andava al mare in Romagna, uno che non aveva paura dell’acqua grigia, uno che riprendeva i vucumbrà che infastidivano i bagnanti in spiaggia, uno che prometteva un cambio di musica, uno che non le mandava a dire, che rispondeva a tono, che si faceva valere, sia in Italia che in Europa. Qualcuno che finalmente si dimostrava netto sulla questione della difesa dei confini. Qualcuno che non aveva paura di prendere posizione in chiave paternalistica sul problema della droga. Qualcuno che poteva farci sentire l’odore di un virilismo da prima metà del secolo scorso. L’uomo forte al comando, il lasso di tempo nullo passante tra pensiero ed azione. Dinamismo. E poi, insomma, il Capitano era uno che piaceva molto alle donne. Sempre dalla parte giusta, sempre pronto a rovesciare il tavolo, sempre pronto a rovesciare la prospettiva. In un’epoca di decadenza culturale totale, ove non esisteva più una verità certificabile, il Capitano saliva automaticamente nella posizione del predatore marino apicale, pronto a fare incetta dei tanti piccoli pesciolini grigi.

La questione non era tanto se inquadrare il Capitano come fascista o meno. I più ardimentosi parlavano

di meta-fascismo, o al contrario di pre-fascismo. Era tutto in divenire. Ma il linguaggio era quello

del fascismo storico, solo contestualizzato alla miseria della modernità del tempo. Un tempo, purtroppo, abbastanza presente ed attuale.

L’onorevole se la cantava per bene, anche con una certa autoironia di facciata. In lui c’era un po’ del classico Columbro di inizio anni ‘90, con un bel po’ di Pozzetto di contorno. A ben pensarci però, forse il Pozzettismo era il piatto principale, solo ripulito dall’ingenuità e della benevolenza classica del personaggio. Riusciva a comunicare uno schiacciante senso di mediocrità, che rassicurava i suoi elettori, sostenitori e fan.

I detrattori lo apostrofavano come Capitan Stocazzo, ma lui non se la prendeva mica, d’altro canto

quello era il suo cognome. Aveva fatto pratica durante la scuola e durante il servizio militare con quel tipo di insulti, aveva maledetto i suoi antenati, ma poi aveva fatto pace con la questione. Amava cripto-citare il marchese del Grillo: -Non è che mi sento Stocazzo, e che voi non siete un cazzo.

Il nostro fan era solo di qualche anno più vecchio dell’Onorevole. Aveva passato grosso modo tutto l’ultimo anno su internet, a sostenere il Capitano, criticando aspramente i suoi detrattori. Non era contentissimo dell’accordo di governo col Partito Complottista (noto anche come Partito della Franca Psicosi); aveva comunque ragionato sulla necessità di allearsi con una forza numericamente grossa e relativamente manipolabile. In ragione di ciò aveva dato il suo inutile assenso.

Quando il consenso elettorale della Sega, misurato coi sondaggi, aveva superato quello degli altri partiti, il nostro fan aveva cominciato a vivere anche una certa eccitazione sessuale, in seno alla piena immedesimazione col Capitano. Immaginava di essere intrappolato nel Corpo del Capitano, e di essere spettatore passivo di quello che succedeva al suo mito. Il protagonismo televisivo e sui social, le prime pagine sui quotidiani nazionali, le fidanzate da rotocalco, il calore della gente, le invettive contro gli acari dei centri sociali, i battibecchi in TV dove il Capitano rimetteva sempre a posto i suoi avversari. Immaginava di essere messo in difficoltà da qualche giornalista vicino alla linea del Partito Complottista e di rispondergli per le rime. Il suo grado di sollazzo massimo però avveniva quando immaginava di misurarsi con qualcuno della sinistra; i suoi sogni bagnati erano popolati da giornaliste sessantenni, piacenti e con abbigliamento vagamente fetish da dominatrici. Il pensiero di domarle con i suoi validi argomenti gli restituiva una totale sensazione di controllo sul mondo.

Giacomo (nome di fantasia del nostro fan) sentiva di essere l’anima gemella del Capitano. Il suo era un innamoramento platonico. L’unico sentimento di invidia che provava per il Capitano era quello relativo al come il suo eroe riuscisse ad essere spontaneo, e ad esprimere con facilità quella parte di sé, mentre Giacomo invece viveva sostanzialmente in una prigionia volontaria, fatta di desideri inesauditi e di godimenti immaginari.

Noto ai servizi psichiatrici di zona, Giacomo era stato sempre sottovalutato per la sua estrema bizzarria. Nessuno dei medici che lo aveva visitato credeva a quanto raccontasse di sé, veniva scambiato per un millantatore in cerca di un qualche tipo di invalidità. Si era auto-eletto dio delle zanzare. Nella convinzione che le zanzare lo potessero depurare dal male che aveva dentro, aveva sacrificato la sua vasca da bagno, trasformandola in un grosso allevamento. A quegli insetti dava una funzione emuntoria ulteriore. Teneva le finestre chiuse per la maggior parte del tempo. Nutriva gli esemplari adulti con soluzioni di acqua e zucchero, e dava verdure bollite alle larve nella vasca da bagno, con dei piccoli addendum di forfora o altre secrezioni del suo corpo. In casa restava in mutande, coperto di zanzare che lo succhiavano. Il suo sangue serviva a garantire nuova prole a quelle bestie. Tecnicamente il suo corpo fisico continuava nelle zanzare. Di generazione in generazione di insetti percepiva quelle zanzare come sempre più vicine a lui. Le punture che un tempo gli elargivano fastidioso prurito erano infine diventate assolutamente neutre. Nessun fastidio di sorta, solo un lieve e fugace piacere. Spesso ingoiava i ragni che trovava in casa, come un rettile, per ridurre i problemi delle zanzare. Non aveva tardato a cominciare a sentire gli insetti parlottare tra di loro, ad un volume bassissimo. Il più delle volte lo elogiavano, per il fatto di aver compreso come rimanere in salute in maniera economica, e senza dover ricorrere a dei miserabili medici. Altre volte tuttavia erano pungenti rispetto alla sua situazione:

-Ci da il suo sangue, è vero, dovremmo essergli grate, ma diamine, non ha neppure una vita.

-Da quando ha smesso di andare a prostitute pare che sia privo di scopo.

-Basta che una di noi si faccia un giro nelle case del vicinato, una casa qualsiasi, una a caso, e troveremo sicuramente qualcuno che ha una vita migliore della sua.

-Certamente per noi è un dio ed un padre. Fonte di nutrimento e di saggezza, ma nella società degli uomini è poco più di un sacco di spazzatura.

-Certo che è conveniente per lui tenerci in casa sua, visto il servizio che gli facciamo.

-Ah, se noi potessimo essere donne anziché zanzare, lo potremmo fare felice eccome.

-È molto invecchiato nell’ultimo anno, però in effetti anche prima l’età non è che se la portasse bene.

-Se prende i farmaci è sicuro, al mille per cento, che diventa un invertito. Fa bene a non prenderli.

-Sarebbe interessante se riuscisse a masticare i propri denti prima di inghiottirli, ma come si fa a masticare dei denti con le pure gengive. È davvero possibile?

-Il giorno in cui morirà, purtroppo, la sua anima migrerà dentro tutte noi. Quello che mi domando io però è, se la sua anima viene scomposta in cinquantamila zanzare, nella singola zanzara cosa ci rimane di lui. No perché, anche adesso che è tutto intero nel suo corpo di uomo, di cervello non è che ce ne sia tanto.

-Lo vedrei bene ad asciugarsi i capelli direttamente nel forno.

-L’ho sognato da ragazzo, aveva più brufoli che capelli, e per chiarezza, non è che fosse così calvo.

-È da una decina di anni che le persone sono tutte collegate via macchinari. Ma i vecchi hanno cominciato dopo a collegarsi. Quando hanno cominciato loro a farlo il mondo ha iniziato ad accartocciarsi su se stesso, ed i concetti di verità e di bugia si sono frammisti fino a diventare inestricabili. Faisbec ha emulsionato il tutto.

-Mi immagino il giorno in cui, mentre piscia, gli si stacca l’uccello e gli cade nel cesso. Quel giorno, carissime, ci faremmo tante di quelle risate da morire stecchite come su una racchetta elettrica.

Spesso piangeva quando si sentiva attaccato dalle sue beniamine, ma non uccideva mai alcuna di loro con dolo. Al massimo poteva capitare che muovendosi nel sonno ne schiacciasse qualcuna, ma anche in quei casi provava risentimento verso se stesso. Non le odiava, malgrado quello che dicevano. Era sicuro che con quel tipo di apparato biologico in casa, con quell’ecosistema malarico, non sarebbe mai morto, a differenza di quei poveracci che vivevano nel mondo vero. Ignorava le teorie sulla trasmigrazione dell’anima che gli proponeva qualcuna di quelle zanzare. La sua vita era virtualmente illimitata, per quanto miserabile. Probabilmente anzi, in seno a quella non vita, a quella pressoché totale mancanza di godimento, vi era l’elisir dell’immortalità. Non consumare la propria vitalità, per Giacomo, era il modo per non morire mai. L’idea che sarebbe sopravvissuto al Capitano un po’ lo sconfortava, ma anche in ragione di ciò, aveva deciso di fornirgli il suo supporto.

Usciva di casa prevalentemente per fare la spesa. Viveva con la parte di pensione che la madre gli passava, in una casa di proprietà, da solo. Su internet tuttavia aveva trovato delle nuove motivazioni identitarie, qualcosa che lo rendesse qualcosa in più del dio delle zanzare.

Con l’arrivo del Vincistocazzo si aprirono dei nuovi spazi di gratificazione. Vedeva finalmente una forma di premio per i suoi sforzi. Aderì con decisione.

Si impegnò al massimo. Attaccò con costanza i profili del Partito Grigio, definito da lui stesso Partito Demogeriatrico, accompagnando le sue invettive con l’hashtag #vecchidimerda. Attaccò ogni candidato alle europee che non fosse della Sega. Attaccò sindaci di grandi, piccole e medie città. Attaccò i giornalisti sulle loro pagine ufficiali. Il suo stile retorico era il medesimo del Capitano. Frasi secche. Paragoni forzati. Parallelismi insensati ma d’effetto. Benaltrismo belligerante, mandarla in caciara, puntare solo e soltanto alle viscere. Colpiva anche sul personale, senza troppi problemi, vecchia scuola

Forza Italia, di cui comunque era quantomeno cintura verde. La soddisfazione che gli dava vomitare odio era in grado di restituirgli ancora qualche piccola erezione. Ogni volta che ciò accadeva rimaneva sorpreso.

Il giorno in cui una sua foto venne pubblicata dall’account ufficiale della Sega, capì che il suo momento era arrivato. Era arrivato il momento di librarsi in volo, e divenire vestale finale del Capitano, cane da caccia perfetto, cecchino infallibile, sicario silente, nemesi divina, autobomba parcheggiata durante una manifestazione della CGIL.

Non si concepiva più come un uomo che ama un uomo, ma come un meme che ama un meme.

La foto pubblicata in questione ritraeva Giacomo, davanti ad una bandiera della Sega, mentre incendiava un poster della nazionale giamaicana di Bob. Probabilmente il poster era appartenuto allo stesso Giacomo, in una fase precedente della sua vita. Quella foto con dei neri che bruciavano aveva fatto accendere il cuore di molti militanti del partito del Capitano, ma erano anche partite numerose polemiche accese dagli organi di stampa del Partito Grigio, e su cui si erano inseriti numerosi giovani di sinistra, i pochi che ancora non si erano dati al disimpegno hipsteroide. Tanti altri militanti della Sega presero posizione per difenderlo dagli attacchi. Ne era sicuro, non era più solo, faceva parte di qualcosa di più grande.

Non tardarono i messaggi di apprezzamento per il fatto di essersi esposto in maniera così netta. Non era più un miserabile che odia gli altri dagli anfratti della sua stanzetta. Era finalmente uno figo. Uno del popolo che sa dire la sua. Diciamolo pure, uno coi coglioni, che era in grado di riscuotere simpatie sui vari social. Il suo isolamento sociale pluriennale veniva mandato in soffitta, con tutta la vergogna ad esso associata. Non era più un fallito.

Attaccò personalmente ogni comunistoide che si era permesso di criticare la sua foto. Usò termini

coloriti. I soliti paragoni con le zecche, due cazzate sul comunismo platonico inerenti il fatto che sotto

il comunismo tutte le donne diventano di tutti, e quindi implicitamente delle puttane d’uso comune; disse in maniera chiara che tutti quei presunti compagni erano dei comunisti col Rolex, gente che aveva fatto scuole alte, membri dell’establishment, raccomandati, e alla fine quasi tutti dei coccola-negri. Disse che si trattava di una schiera di fannulloni che nella vita non avevano mai avuto problemi, a differenza dello zoccolo duro del popolo della rete, unito da una condizione di vittimismo stenico, un popolo che intendeva spezzare le proprie catene e vendicare i soprusi subiti, accoppando comunisti ed extracomunitari.

Si concentrò anche su argomenti francamente più gretti tipo il non uso del sapone da parte dei comunisti, e del fatto che troppo spesso le donne di sinistra non curavano con sufficiente attenzione la propria epilazione. Parlò della classica giornata media del comunista, intento a coltivare funghi sul divano di casa attraverso il proprio poltrire, farcito di canne e letture inutili dell’espresso. Schifò con livore le scarpe aperte in cuoio, in quanto vettrici di lerciume della peggiore specie.

Piovevano attestati di consenso, sotto forma di pollici. Anche lui, all’interno della cornice del proprio browser, stava diventando un personaggio in qualche modo paragonabile, seppur su un’altra scala di grandezza, al grande Capitano.

Continuò ad impegnarsi. Condivise a più non posso. Si fece un sacco di amici. Diventò un vero stendardo mediatico della sega. Andò a stanare tutti i “democratici” che avevano condiviso foto ironiche del fu Duce appeso come un salame, e tuonò sull’obbligo atavico di rispetto che in Italia abbiamo nei confronti dei nostri antenati.

Imparò un sacco di cose leggendo i commenti degli altri. Li fece propri. La sua identità virtuale nutriva costantemente quella reale, ridotta a poco più di larva ormai impupata.

Si sentiva esattamente così. Una crisalide, che matura al computer, in una stanza buia, umida, di muffa condita, entro lo spessore di un’aria densa e malsana, di polvere in perenne sospensione nell’aria. Le isole di schifo, di polvere e capelli, per terra. Quella crisalide un giorno si sarebbe aperta, e dal suo interno si sarebbe liberata una bellissima farfalla verde.

Rimorchiò virtualmente numerose signore, quasi tutte sopra i cinquanta, che lo stimavano molto, ed avevano alta considerazione di lui, considerandolo arbitrariamente uno dei preferiti dal Capitano. Non aveva il coraggio di incontrarle, anche per le difficoltà organizzative dell’uscire da casa. Gli bastava però sentirsi considerato. Quello per lui era davvero tanto.

Giunse infine il giorno della chiamata. Pochi minuti al telefono. La chiamata era un premio davvero prestigioso, e che solo pochi potevano ricevere. Per lui rappresentava quello che negli anni 90 sarebbe stato un rapido coito orale con Claudia Schiffer o con Cindy Crawford.

Gli si strozzava la voce, non riusciva a rispondere. Era troppo emozionato. Le lacrime solcavano il suo viso, e la faringe si era probabilmente avvolta a nodo.

Riuscì a farfugliare solo sciocchezze tipo: -Grazie Capitano, noi crediamo in te. Tu sei quello che ci salva da questa politica di merda. Io ti seguo perché ci credo.

Seguirono le settimane, nel solito tran-tran e si era ormai a ridosso delle europee. Giacomo accarezzava con sempre maggiore desiderio il primo premio. Il caffè col Capitano.

Il suo indice di gradimento continuava ad aumentare, ma per via dei suoi costanti rifiuti rispetto all’incontrare gli altri fan, e per via del suo aspetto sostanzialmente dimesso e mal curato, constatabile in molti dei suoi “Video Verità”, gradualmente anche all’interno della fan-base della Sega qualcuno cominciò a domandarsi quanto Giacomo stesse apposto col proprio cervello. Lui da canto suo tirava dritto, come piaceva dire al suo eroe, ed ignorava le isolate critiche. Chi lo criticava era solo invidioso del suo rapporto privilegiato col capo-partito.

L’apoteosi.

C’era l’ufficialità. Lo avrebbe incontrato. Avrebbe preso quel caffè con lui.

Giacomo sognò una lunga fila di persone, sia uomini che donne, in attesa al di fuori di un bar tutto sommato umile. Entravano uno alla volta all’interno del locale, posto ad altezza strada e non troppo grande, con vetri opachi. All’interno del locale, davanti ai baristi ed alcuni membri dello staff, ciascuno dei fan eletti poteva avere un rapporto carnale completo col Capitano. Le modalità con cui però avveniva tale rapporto, erano ovviamente decise dal Capitano medesimo. Quel tipo di situazione non faceva dubitare Giacomo della virilità del suo eroe, ma anzi, lo innalzava ad un ideale massimo di condivisione. Il Capitano si donava alla sua gente, e rendeva tutti felici, anche col proprio corpo.

Probabilmente Giacomo aveva fatto quel sogno per via della forte esaltazione e tensione sessuale che talune fan del Capitano avevano nei suoi confronti. Ma lui sarebbe davvero stato degno di unirsi carnalmente col suo eroe?

E se invece le cose fossero andate diversamente? Se il Capitano avesse deluso Giacomo rifiutandolo?

Questi pensieri passavano però subito via, spazzati dalla piena certezza che il cuore dell’eroe collettivo fosse sufficientemente puro da superare gli steccati ideologici dell’orientamento sessuale. Unirsi col Capitano, significava poter diventare davvero, anche se non per troppo tempo, parte viva del leader.

Tutti avevano diritto a quel tipo di amore e di fusione, ma forse Giacomo, in virtù del suo impegno, lo meritava più di qualcun altro.

Scrisse una poesia da recitare al momento dell’incontro, lo stile era quello neo-futurista:

Spabam,

forte lo schiaffo del Capitano,

si incunea sugli zigomi del giornalista.

Sbabum,

grande il sollazzo del popolo libero

nel veder i negri fuggire nel mare.

Clank-Clank,

si tingono di rosso sangue dei rossi

le spranghe del popolo del web.

Sploff-Sploff,

diventano paludi le radical maestrine

quando vedono il Capitano alla tivù.

Zriiin-Zriiin,

quando lui arriva,

tutte le piomba.

Ottenne qualche tiepido consenso, ma solo nei gruppi privati di condivisione propagandistica. Pensava che comunque un simile livello di lirismo forse non era adatto al popolino, ma che il Capitano avrebbe apprezzato in pieno sia la forma che il pensiero che c’era dietro.

L’incontro era fissato. Recuperò una giacca del padre al gusto naftalina, si lavò a pezzi ma con cura, si tagliò i capelli da se, ed infine si spalmò una crema idratante rubata alla madre, nella speranza che avrebbe reso la sua pelle più morbida e le sue carni più vigorose. Il Capitano era solo ad un’ora di treno da lui. Avrebbe dovuto parlare ad un comizio in serata. Giacomo per precauzione portò con sé un cacciavite. Spaventato dal timore di avere un buon indice di riconoscibilità nel mondo esterno a casa sua temeva di poter essere riconosciuto da qualcuno di coloro che aveva offeso pesantemente. Il rischio andava corso, ma forse era meglio prendere qualche piccola precauzione. Mentre ripeteva con la bocca la parola “precauzione” un ampio sorriso incorniciava i suoi denti marci e moribondi.

Il viaggio andò tranquillamente. Pure troppo. Nessuno lo riconobbe. Questa cosa non gli andava troppo a genio. Sentiva quasi una frattura tra il suo ruolo pubblico-virtuale e l’anonimato perfetto che vestiva. Valutò però la possibilità che ciò facesse parte delle sue abilità; un agente invisibile, in fin dei conti, può muoversi come gli pare.

Arrivò a destinazione, il locale era più decoroso di quello che aveva sognato. Prima di lui c’erano altri due privilegiati. Un ragazzo ed una ragazza molto giovani e ben vestiti. Vestiti molto meglio di lui che sembrava sostanzialmente un clochard. Gli operatori della sicurezza, dei buttafuori eleganti, gli risero in faccia, ma poi spavaldo ed un po’ arrogante, Giacomo tirò fuori il telefono che conteneva la mail ufficiale, con tanto di codice di riconoscimento, che gli forniva il diritto di prendere un caffè col Capitano.

Lo fecero passare. Il cuore stava quasi per esplodergli nel petto. Si sentiva come quando aveva sentito il suo eroe per telefono, ma era infastidito dalla presenza degli altri ragazzi, e dallo staff del Capitano. Quegli intrusi guastavano quel momento di intimità.

Era goffo ai limiti del ridicolo, per quanto si sforzasse di essere preso sul serio.

Il Capitano finse di ricordarsi di chi fosse Giacomo, ma lo stratagemma non funzionò. Il nostro fan si sentì come colpito da un camion all’improvviso, le sue certezze posticce si sgretolavano davanti a quella mancanza di considerazione. Non valeva però la pena di perdersi d’animo. Declamò la sua poesia a memoria, con fare isterico, quasi contorcendosi, incurante dell’imbarazzo collettivo.

Il Capitano sdrammatizzò in modo neutro: -Abbiamo un poeta qui, alla faccia di quelli della sinistra che si considerano gli unici maestrini della cultura.

Il commento del Capitano non bastò a gratificarlo. La persona che Giacomo aveva di fronte era un traditore. Ma non poteva essere davvero così la persona che aveva idolatrato per tutto quel tempo. Chi aveva di fronte non era lo stesso carismatico leader che Giacomo aveva amato su faisbec ed in televisione. Non era l’uomo della gente. Gli mancava quella forma di sensibilità tipica del Capitano, quella che secondo Giacomo era indispensabile per apprezzare il valore della poesia che lui aveva scritto. Il vero Capitano avrebbe colto al volo il loro legame speciale. Quel pagliaccio derisore era un traditore del vero Capitano, una brutta copia, un’imitazione. Non era vero. Non era lui.

Giacomo doveva salvare il Capitano da questo sostituto di carne.

Gli occhi gli si incupirono, mentre tutti gli astanti erano impegnati a giudicarlo come zimbello e a deriderlo. Meritava qualche riconoscimento in più. Meritava di essere riconosciuto per quello che aveva fatto. Da canto suo non riconosceva affatto in quell’impostore il suo oggetto d’amore, non era la persona a cui si era dedicato con tutto il cuore.

Tirò fuori il cacciavite dalla manica della giacca. Riuscì a piantarglielo nella fronte e con dei movimenti rapidi e secchi fece leva un po’ dappertutto dentro quel che c’era nella teca cranica.

Il linciaggio susseguente gli fu quasi fatale. Venne portato in carcere.

Aveva un ruolo. Aveva di nuovo un ruolo. Uccidendo quell’uomo aveva salvato il Capitano, la persona più importante della sua vita, dal rischio di essere confuso con un bifolco qualsiasi, con un doppelgänger addetto alle pubbliche relazioni.

Era comunque diventato qualcosa in più di un semplice dio delle zanzare.