Xylella Man III

Un racconto volutamente iper-complottista.

Per chiarezza: Qualunque riferimento a persone o fatti realmente accaduti è da ritenersi puramente casuale.

III. L’appassimento.

Fine Giugno 2015

Josaphat aveva resistito per una quarantina d’anni a quel dolore. Non era mai ricorso ai farmaci. Si era costruito il proprio avvenire, benché sentisse sempre quel sottofondo musicale di tristezza infinita. Aveva continuamente sfogato il dolore nel proprio lavoro, affinato le sue abilità, ed in qualche modo si era mantenuto impegnato. Aveva raggiunto vette d’abilità nell’infiltrazione e nell’ottenimento di informazioni chiave. La pensione però l’aveva messo conto un muro, e i suoi già prima citati rimpianti, erano pronti coi loro fucili a fare fuoco, e spedirlo magari in un’altra dimensione.

-Devo fare qualcosa, cara.

-Dovresti parlare con un medico. Rimandi da troppo tempo.

-No. Non penso che sia la cosa giusta da fare.

-Quando ti guardo vedo un grande numero di notti senza luna, avvolte l’una sull’altra. Collassate su una luna nera che fa da centro di gravità. I tuoi occhi sono senza luce. Questa è depressione. Non fai più di dieci passi al giorno. Pranzi e ceni con qualche cucchiaino d’olio. Dormi metà della giornata ma sempre con un occhio aperto.

-È un luogo di villeggiatura questo. Mi devo riposare.

-Il tuo non è riposo, è attesa della morte. Come quegli animali malati che se ne stanno rannicchiati, attendendo il trapasso. La loro liberazione.

Josaphat si decise a fare il bagno. Le sue quattro ossa galleggiavano perfettamente in quel mare così sapido.

-Dicono che questo mare sparirà. Chissà se sparirà prima lui, prima io, prima i miei rimpianti, o gli ulivi di quei poveracci.

Lontano dagli occhi di sua moglie provò a finire sul fondo per annegare, ma era una battaglia persa. La forza che lo rimandava su, quel principio d’Archimede tarlato dal peso specifico di quell’acqua così pesante, assumevano per lui il ruolo della mano di Dio che lo sottraeva da un epilogo miserabile.

Era stato un eco-sicario. Aveva svolto un lavoro pericoloso con grande coraggio e pianificazione. Forse era il caso, stavolta per davvero, di pacificarsi col proprio passato.

Disse alla moglie di attenderlo là. Sarebbe andato a Tel Aviv a parlare con uno psichiatra, o con uno psicologo. Qualcuno che potesse aiutarlo in qualche modo ad affrontare la depressione.

Tutto il viaggio fino a Tel Aviv lo passò ad immaginare i lineamenti di Fiamma. Qualunque combinazione le pareva troppo lontana dalla realtà. Il modo in cui le rughe si sarebbero intersecate, gli zigomi colliquati o gonfiati. Numerose erano le forze di intervento che il tempo poteva sfogare su di un viso.

Prese un caffè con un suo vecchio amico della polizia da tempo transitato nei servizi. Gli spiegò la faccenda.

Lui si fece quattro risate: -Quindi, quel musone quarantennale, era colpa di una donna?

-Mi dispiace di essere scontato come un adolescente qualsiasi. Sono strascichi. Come le ferite da infiammazione che si creano tra un organo e l’altro in certe malattie. Parti malate del corpo, infiammate, che finiscono con l’unirsi insieme, deformando quello che è l’aspetto complessivo delle viscere di un uomo. Un dolore che strozza come un serpente costrittore.

-Sì, sì. Capisco. Mi dispiace di averti riso in faccia.

-Che fare?

-Prenditi un paio di cappuccini, io faccio due telefonate.

Fece compagnia all’amico poliziotto, prima di congedarsi fumarono una sigaretta insieme. Josaphat finse di fumare, ma non mandò davvero fumo nei polmoni, e anzi, si sforzò fortemente di non rimettere, tanto lo disgustava quell’odore. Infine l’amico gli lasciò un indirizzo.

Suonò al citofono di Fiamma. Poteva masticare il proprio cuore tra i denti come fosse una gomma da masticare qualsiasi. Sentiva di stare per esplodere in un pianto. Non sapeva cosa aspettarsi. Non sapeva cosa aspettarsi dall’aspetto di lei, dalle reazioni di lei, e dalle reazioni proprie.

Aprì la porta Fiamma. Non lo riconobbe.

-Buongiorno, lei chi è?

-Sono… sono… sono qui per un censimento. Per delle interviste.

-A proposito di cosa?

-Prodotti oleari Israeliani. Posso entrare?

Era dubbiosa. Non tingeva i propri capelli. Era rimasto un poco di rosso, un pochino. Era molto magra, ma la sua pelle non aveva subito troppo il passare degli anni; meno delle coetanee almeno. Conservava, incredibilmente, una buona parte della sua bellezza originale, sì tanto da far sentire le viscere di Josaphat come sul punto di sciogliersi tutte in un istante, insieme agli altri organi, e di lasciare cadere in terra un corpo vuoto, un esoscheletro vuoto, come un granchio a cui venga mangiata la polpa, come un riccio marino svuotato delle sue uova, come un gambero perfettamente svuotato con una cannuccia di ferro. Appunto, solo un guscio. Solo il guscio vuoto che Josaphat era.

-Si accomodi.

-È sposata?

-Sono vedova. Ma… perché questa domanda?

-No, è che c’è una domanda in questo questionario su quanto olio si consumi pro-capite in un anno, e mi interessava sapere quanti foste in famiglie.

-Come ha detto che si chiama?

-Josaphat.

Lo guardò. Cominciava a nutrire qualche dubbio, per quegli occhi e quel naso. Anonimi per uno sconosciuto, caratteristici per chi, magari, l’aveva conosciuto un poco meglio.

Lo squadrò a lungo. Ad un certo punto era pressoché chiaro che il non riconoscerlo era diventato giusto un giochetto per evitare l’ansia di affrontare un vecchio pretendente.

-Potrei avere un bicchiere d’acqua?

Chiese Josaphat.

Quel bicchiere d’acqua, per quanto necessario a stemperare quel piccolo deserto esofageo fece scattare almeno mezzo migliaio di piccoli spilli immaginari, che trapassarono la mucosa in ogni dove.

-Mi scusi, forse è il caso che vada.

-Come mai sei tornato dopo tanto tempo? Pensavo che non avresti avuto più il coraggio.

Abbassò la testa.

La dondolò.

Era arrivato fino a là per vederla. Non sapeva cosa dirle però.

-Io ti ho sempre amata. Ma non parlare, per favore, come se tu avessi mai nutrito per me qualcosa di diverso dalla tenerezza.

-Tenerezza forse. Pena sicuramente.

-Pena?

-Pena per un sub-umano, egoista. Una di quelle persone prese da se stesse, non in grado di aprirsi neppure con la persona che dicono di amare. Avanti, chiedimi perché me ne andai? Dopo quarant’anni potrei anche essermene dimenticata.

-Allora, perché te ne andasti?

-Eri stomachevole. Io non sarei mai riuscita a stare con una persona che odiavo. Un uomo brutto fuori, ma soprattutto dentro. Il fatto che ti definissi un “giusto” non cambiava di alcunché la tua netura. La tua natura di guscio. Gretto, a modo tuo coraggioso rispetto alle azioni, ma codardo rispetto a parole ed aperture emotive. Un uomo incapace di dire di amare, e dato che le parole servono a definire i sentimenti, senza parole non ci sono neppure i sentimenti. Non si può amare nella debolezza. Non si può amare senza coraggio.

-Ma io ti amavo.

-Se l’avessi detto per terpo, forse, sarei riuscita a convivere col tuo disumano grugno. Magari da vicino non sei così… insomma… hai capito no?

Josaphat si alzò. Andò via. Andandosene disse: -Ah, è così che stanno le cose? Sai che c’è di nuovo?

-Cosa?

-Niente.

Se non altro una risposta. Se non altro una risposta.

Luglio 2015

Prese da casa alcune cose, dei vestiti poco eleganti, quasi da mendicante.

Si trasferì in Salento ed affrontò l’estate.

Insegnò ad un cane adottato in loco a mangiare le maledette sputacchine. Andò in lungo ed in largo, nelle zone interessate dall’epidemia, suonando il suo misterioso strumento dalle piccole corde. Sulla strada conobbe numerosi artisti di strada, ciascuno impegnato in una disciplina diversa. Lo chiamavano l’ebbro ebreo. Spesso ammetteva di essere lui l’untore primigenio di tutta l’epidemia, ma nessuno gli credeva, e di solito tutti ridevano della cosa, anche i complottisti più complottisti. Le sputacchine venivano tutte da lui quando suonava quello strumento. Un sacco di battute su pifferi e zoccole.

Una volta radunati i piccoli insetti, incolpevoli ma infetti, ci ballava sopra, e faceva ballare su di loro i suoi amici, o li faceva direttamente mangiare dal suo cane, che malvolentieri si prestava al ruolo di boia di emitteri.

Un lungo cammino estivo. L’efficacia del suo strumento era perfetta. L’unico nemico era il tempo, e le energie volte a battere suonando un intero territorio a piedi. Rimase in quel posto, in quella penosola, anche negli anni a venire. Il suo impegno, unito agli sforzi congiunti di tutti gli altri attori di questa resistenza ad un batterio ed a certi poteri, portò a casa più di un risultato.

-Ho lasciato mia moglie a casa. Non so se la rivedrò. Mi sono liberato del mio più grosso rimpianto. Il resto della mia vita la passerò ad occuparmi di tutti i sensi di colpa rimasti.

Nessuno capiva bene cosa intendesse quando parlava del suo passato e dei suoi rimorsi. Nessuno avrebbe mai realisticamente sospettato che potesse davvero essere lui il famoso primo untore, malgrado le sue placide e continue ammissioni. La sua onestà sfacciata, paradossalmente eclissava la possibilità di essere scoperto per davvero.

Pur con le dovute cicatrici quella grande foresta di ulivi riuscì a scampare da un grosso olocausto, a differenza delle sputacchine, che a sud della cintura tra Brindisi e Taranto praticamente si estinsero.

Molti di quanti lo hanno conosciuto lo hanno definito il Busker perfetto venuto dal vicino Oriente. Una specie di emanazione dello Scirocco.