Sicari Trenta.

Sì, cari trenta.

Il Comune lo chiamò nuovamente. Questa volta furono piuttosto minacciosi.

-Smettiamola con le cazzate. Stavolta la questione è extra-comunale.

-Sapete che io non mi smuovo da casa manco per il cazzo.

-Siamo disposti ad accettare la tua ultima richiesta. Cinque ettari, cinque. In larga parte edificabili.

-Io non voglio edificare proprio nulla. Distanza dal mare, comunque?

-Dal suo estremo orientale, si tratta di 300 metri.

-Costa rocciosa?

-Sì, in massima parte. Dai che hai capito di cosa sto parlando.

-Ok, sento puzza di inculata. Però comunque mi sembra che le cose stiano prendendo la direzione giusta dal punto di vista della ragionevolezza della trattativa. Cosa devo fare?

-Si tratta di una cosa più complicata delle ultime volte.

-Cioè?

-Un lavoro da sicario.

-E me lo dite per telefono?

-Sai che, come dire, abbiamo delle linee sicure.

-Un sindaco può avere una linea sicura?

-Non sono solo un sindaco. Sono comunque anche un esponente del Partito. Uno di quelli in vista, tra l’altro.

-Ho capito l’andazzo. Però ecco, vorrei esprimere le mie perplessità rispetto all’omicidio.

-Non devi per forza uccidere l’obiettivo. Ci basta che tu lo faccia sparire. Ovviamente, per sempre.

-Questo già cambia di molto le cose.

-Abbiamo scelto te non tanto per le tue abilità, notoriamente scarse in senso stretto. Ti abbiamo scelto per la tua flessibilità e l’immensa fortuna che ti salva ogni volta.

-Io la fortuna non la sfiderei troppo, per questioni di fede se non altro. Però magari a ‘sto giro svolto, e non devo più compromettermi con voi.

-In che senso?

-A me interessa solo avvicinarmi al mare. Un vezzo da meridionale.

-Sì, sì, ho capito. Non sei mai riuscito ad accettare che il nostro comune non abbia uno sbocco sul mare, eh?

-Questi sono affari che dovresti risolvere tu, caro Sindaco.

-Va bene.

In realtà i rapporti col municipio erano abbastanza tesi. A K. non andava bene la deriva centrista del sindaco, assolutamente in linea con quella del Partito. A dire il vero egli stesso aveva intrapreso la propria personale deriva centrista, ma quella altrui continuava a causargli un certo disgusto. In fin dei conti stava solo cercando di smarcarsi da un chiaro inquadramento identitario. Rinfacciare agli altri i propri difetti è un modo comodo per prenderne le distanze.

Gli comunicarono il bersaglio. Una specie di rivoluzionario di una comunità montana posta tra varie regioni del meridione. Separatisti dei nostri anni. Discretamente comunisti. Comunisti per dire. I soliti separatisti di sempre: cappa, spada, armi da fuoco del blocco sovietico (comprate sulla ebay dei nostalgici della cortina di ferro) e numerose tipologie di esplosivi fatti in casa, magari realizzati con qualche tutorial disponibile sull’internet. Al passo coi tempi il giusto. Ampiamente in grado di auto-pubblicizzarsi, nel tentativo di produrre la loro propria personale mitopoiesi. Si perde il basso profilo per accumulare consenso, ma quando lo si perde, si espone il fianco.

Avevano dalla loro numerosi successi. Sequestri, azioni rocambolesche, sabotaggi di mostre ed attività culturali, qualche bomba, migliaia di murales, anche e soprattutto su edifici storici.

A livello nazionale i vari media del caso avevano silenziato discretamente la questione, ridimensionandone i contorni. Vittime, livello di coinvolgimento. La solita coperta di sabbia. Su internet non mancavano i vari gruppi di sostegno ed i corrispettivi forcaioli sull’altra sponda.

Il loro capo, il bersaglio di K, rispondeva al nome di Mario Rossi, anche detto la Pecora Alpha. Non si era sicuri al cento per cento delle veridicità delle sue generalità. Si sapeva, e non per certo, che era nato nel 1977 a Pescara, e si era successivamente trasferito nella suddetta comunità montana, dopo non pochi pellegrinaggi universitari al centro-nord. Il solito maestrino della sociologia e dell’antropologia.

Si era fatto la propria corte. Partendo da un piccolo nucleo di sbandati, di vallata in vallata raccoglieva consensi e motivava il folle piano di indipendentismo di un imprecisato e povero pezzo di Appennino. La sua biografia ricordava vagamente quella dei brigatisti migliori. Si sprecavano le leggende sul suo conto. Girava voce che avesse discrete abilità di mangiafuoco, maturate durante un periodo da punkabestia bolognese, o peggio ancora ferrarese. Girava voce che non potesse scendere sotto le sessanta sigarette al giorno, per una non meglio specificata patologia cardiovascolare. Girava voce che si imbottisse di tranquillanti, unico freno per il suo temperamento naturalmente iper-violento. Per il resto, nel tamponamento del suo disequilibrio, i vari report governativi parlavano di lui come di una persona assolutamente equilibrata ed a modo. I suoi denti tuttavia erano descritti come oltremodo disturbanti. L’intenso giallo che li caratterizzava poteva essere giustificato solo dall’uso di un un dentifricio bio alla fuliggine.

K. si fece accompagnare dal padre nella stazione dei treni più vicina. La versione che diede ai suoi genitori era che doveva scrivere un articolo per una certa rivista online.

Il padre insisteva sul fatto che come al solito non avrebbe guadagnato nulla, e che avrebbe continuato a gravare sul bilancio familiare.

-Lascia perdere papà, a ‘sto giro svolto di brutto. Lascia perdere.

Il viaggio in treno avvenne senza sorprese di sorta. Un lunghissimo solitario a Shangai servì a migliorare di qualche ordine di grandezza le sue abilità prassiche, nonché a raggiungere un nuovo livello di competenza nel settore delle bestemmie non creative, date le numerose vibrazioni inevitabili a bordo di un convoglio.

K. arrivò nella stazione della città. I tempi datigli dai suoi committenti non erano troppo stringenti. Trovò una stanza in una casa da condividere. La sua copertura ufficiale era quella di studioso delle superstizioni locali, per conto dell’Università di Trento. D’altro canto preferiva portare avanti la copertura già usata con suo padre. Le indicazioni dall’alto spesso le trovava troppo castranti. Il Sindaco d’altro canto gli aveva lasciato carta bianca.

Il Comune gli aveva fornito una sorta di reliquia, che avrebbe certamente attirato l’attenzione degli indipendentisti, un paio di Ray-Ban Wayfearer con incisa la scritta BR. Un modello speciale, prodotto in edizione limitata a inizio anni Ottanta. L’idea del Partito era che per i separatisti il possesso di un simile oggetto potesse essere una garanzia di ortodossia e fedeltà all’idea. K. dissentiva, ma non aveva mai avuto un paio di Wayfearer, e quel paio in particolare gli sembrava bellissimo.

Nella casa dove aveva preso in affitto una stanza c’erano una francese ed un milanese. I motivi per cui erano arrivati a Tibbilisi erano abbastanza improbabili. Lei per una ricerca su una grossa vespa altamente invasiva avvistata alcuni mesi prima nella zona, lui in quanto fotografo freelancer in cerca di pagnotta.

K. andò subito al sodo, davanti al primo piatto di pasta preparato insieme: -Dunque, scommetto che anche a voi piace il terrorismo.

-Scusa?

La francese pareva irritata più del milanese.

-Niente, il discorso è chiaro. Siamo giovani che vivono in un mondo ormai privo di vere fazioni. Abbiamo ovviamente bisogno di un bacino culturale, più o meno vasto, ove collocarci. Il terrorismo è comunque una sottocultura. No?

-Per te sarebbe una moda?

-Cosa c’è che non va nelle mode?

-Sei un conformista di merda.

-Hai detto bene. Ma ci sono arrivato. Prima comunque diciamo che sono STATO. Poi però, un poco per comodità, un poco proprio per questioni igieniche, ho smesso di essere. Quindi, bene il non essere, ma non il non essere mai stato niente.

-Una posizione da paraculo.

-Però non hai risposto alla domanda. Il terrorismo ti piace sì o no?

Si arrabbiò parecchio.

-Tu sei uno sbirro di merda?

K. si scusò, e tirò fuori il kit di infiltrazione fornito dal Comune. Tirò fuori da un sacchetto un grosso pezzo di fumo. Chiese alla francese se avevano del burro, e nell’incredulità dei due, cucinò un secondo primo. Pennette aglio, burro e fumo.

Il milanese si complimentò. La francese mangiò in silenzio. Due ore dopo e dopo una bottiglia e mezzo di vino il tono della conversazione si era fatto meno serrato e più amichevole.

Il milanese si sbottonò.

-Quindi, noi siamo nell’organizzazione da quattro mesi. L’imbroglio vero della faccenda è che la cosiddetta Pecora Alpha non esiste.

Un colpo di scena sprecato.

-In che senso?
La francese rispose per il milanese.

-È un nome collettivo. Tipo… com’è che si chiamava quel tizio che andava di moda nominare e nominarsi negli anni novanta? Luther Blisset.

-Hai reso ottimamente l’idea. Sei bellissima comunque.

K. non mentiva. Pur avendo dichiarato la propria genuinità formale, qualificandosi come tossico ed escludendo tutti i sospetti razionali su una sua potenziale appartenenza a qualche corpo di polizia, su un piano emotivo puzzava comunque di sbirro.

-Adesso non ti allargare.

K. nell’incedere della conversazione cominciò a tremare. Non era tanto l’emozione per essersi esposto con la francese, quanto il fatto che aveva mangiato molta più pasta dei suoi coinquilini.

-Perché tremi?

-Questo cazzo di fumo. Lo sto accusando. È possibile accendere il riscaldamento?

-No. Però possiamo mettere una pentola d’acqua a bollire.

-Va bene.

-Se vuoi possiamo anche fare del the.

-Molto bene. Anzi, benissimo.

Gli portarono una coperta di pile, a quadrati rossi, arancioni e neri.

Il the era al ribes. K. gradì e provò a scordarsi di essere una sorta di spia, cercando di mettere a tacere tutta la sua voglia di auto-sabotaggio, dettata un poco da senso di colpa e tanto dalla gradasseria.

Il tempo successivo discussero del più e del meno. L’obiettivo di K. era chiaramente quello di infiltrarsi, ma era chiaro come il suo piano fosse studiato solo approssimativamente. Abitualmente para-cattolico, nel senso che aveva una non meglio precisata fede. De facto, a seconda della convenienza poteva anche dirsi francamente cattolico, ma il più delle volte si dichiarava credente nella fortuna. Decise comunque di farsi passare per agnostico, difendendo comunque la gamma etica cattolica. Lo faceva ogni volta che c’era da coltivare del senso di colpa in qualcuno. I due non abboccarono alla provocazione.

Il milanese ad un certo punto si mise a parlare della grossa sbandata che suo fratello a dodici anni si era preso per la nota soubrette Ambra. Ci rimase parecchio sotto. Non era facile capire se si identificasse nella soubrette o avesse per lei dei desideri carnali. Fatto sta che alla quarta rissa a scuola, causata da qualche compagnuccio di scuola che aveva verso di lei utilizzato l’epiteto “zoccola di borgata”, si fece di rimbalzo collegio e poi esercito.

K. non capiva come mai il milanese insistesse tanto su quella storia, e in virtù di ciò decise di tornare sull’argomento principale:

-Sentite, dal momento che io qui ho davvero poco da fare, perché non mi portate ad uno dei vostri incontri da terroristi?

-Tu non sembri davvero interessato a far parte del movimento. Sembri uno di quelli che vengono a scrivere un articolo per qualche rivista on-line di merda. Un bel reportage di sto cazzo.

-Hai detto bene milanese. Lo sembro perché questo è il mio travestimento.

-Ah, un travestimento? Ed in realtà chi saresti?

-Risorse umane di livello.

-Ma come cazzo parli?

-Come parlate voi milanesi. Sai, è una questione di “wording”. Non dite così a Milano?

Il milanese si indispettì. In effetti K. aveva un certo piacere nel complicarsi le cose unicamente per darsi un tono. Coltivare inimicizie solo per mantenersi sopra la linea di galleggiamento degli insulti. Quasi come se la vita fosse riducibile ad un’infinita lega combattuta a insulti.

-Non ha tanto senso che io espliciti la mia posizione. A me, tra l’altro, sembra che possa essere facilmente desunta.

-Sei uno sbirro?

-Ne conosci molti di sbirri che si fanno le canne?

-Non sarebbe la prima volta che ne sento parlare.

-Ok, ma ti immagini uno sbirro preparare una pasta aglio, burro e fumo? È ovviamente un affare da professionisti, non da figuranti.

-Quello che so è che non credo che ci si possa fidare di te.

-Questo lo dici te.

Il milanese chiamò in causa la francese.

A differenza del coinquilino non sembrava guidata dalla paranoia, a dispetto della forte iniziale diffidenza.

-Senti, se vuole venire facciamolo venire. Alla peggio si mette a fare canne in un angolo, appunta due cazzate su un taccuino, e poi quando torna al paese si vanta con gli amici comunisti di essere stato in mezzo ai terroristi separatisti dell’Appennino.

Le sorrisi.

-Tu si che hai occhio, fiore.

Sul “fiore” si irrigidì.

La ragazza continuò successivamente a parlare del suo amore platonico per una sua compagna di stanza ai tempi dell’università, di come avessero flirtato per mesi in maniera progressivamente sempre più spinta senza riuscire a concludere niente. In cambio di rotta avvenne quando provarono insieme a scolarsi della grappa corretta con gli ansiolitici della madre di una delle due. Le brillavano gli occhi mentre parlava della sua prima volta con una donna.

K. era in difficoltà. Sentiva il suo diaframma ondeggiare, e contemporaneamente provava disprezzo per quella che sembrava la classica sotto-trama amorosa di un telefilm americano. Un clichet visto migliaia di volte in televisione. Alla fine si dovette rassegnare al fatto che certe cose potevano succedere davvero anche nella realtà, solo che non accadevano a lui.

-Non è roba di cuore, ma neppure di pisello. È proprio il diaframma, che simula una mareggiata.

-Sei sicuro di non dover semplicemente andare a vomitare. Sai, tutto quel burro?

-Il thc dovrebbe avere un effetto placante sulla peristalsi, o almeno così mi pare di aver letto su “Drogati Oggi”.

Trascorsero alcuni giorni.

La francese non sembrava interessata a lui, malgrado le avesse scritto numerose brutte poesie. In ciascuna di esse la paragonava ad un differente fiore. Asfodelo, Papavero Nero, Ninfea, Dionea. Lei lo derideva, ma sembrava in qualche modo apprezzare la lista delle lodi tessutele addosso, pur schifandone la forma.

Il milanese pensava in linea di massima ai fatti suoi, e quando era un poco più loquace occupava quasi tutto il tempo a vantarsi dei viaggi che aveva fatto, delle foto che aveva fatto, delle ragazze con cui era stato. Non di rado parlava del suo cane, un a suo dire “loquace” Jack Russel a cui mancava solo la parola. K. si morse la lingua per non rispondergli nel giusto modo:
(-Se il tuo cazzo di cane potesse parlare passerebbe la giornata a darti del fottuto hipster para-ricchione.)

K. assunse una posizione remissiva rispetto a loro, sperando che avrebbero cominciato a fidarsi non appena qualificatolo come sfigato inoffensivo, ruolo che in effetti sembrava quasi cucitogli addosso.

Aveva conosciuto altre persone in città. Soprattutto fornai, tabaccai e baristi. Ovviamente, a scanso di equivoci, anche tabaccaie, fornaie e bariste.

La situazione pareva paludosa, e l’unica speranza di K. era continuare a mantenere alti i livelli di sostanze, in modo che i due potessero incolpare della loro sospettosità la sostanza medesima.

Alla fine si decisero:

-Bene, oggi potrai venire con noi. Ci riuniamo.

-Ma quanti siete in tutto ad appartenere alla cellula di questa vallata?

-Parecchi. Anche se molti, tipo noi, non hanno ruolo attivo. Ci occupiamo di propaganda e rendicontazione.

-In che senso?

-Blog, forum.

-Ma c’è gente che ancora va sui forum?

-Forum, newsletter, ma anche social network e social media. Comunque non fare troppo il rompiscatole, e occupati degli stracazzi tuoi, che tanto si capisce da lontano che non capisci un cazzo e che sei fuori dal tempo e da qualsiasi giro che conta.

-Mah, che c’entra…

Andarono a piedi nel centro storico di Tibbilisi. Entrarono nel retro di una chiesa, e da lì fino alla cima dell’alto tetto. Alla riunione, in questa sorta di mansarda, erano comunque presenti una ventina di persone.

Chiesero chi fosse il nuovo arrivato. Il francese e la milanese dicevano di avere scoperto che K. scriveva per una rivista online di moda, costume e altre cazzate giovanili, tipo droga, vizi, abitudini sessuali bizzarre, ancora droghe, festival, etc.

Provarono addirittura a collocarlo in alcune sottoculture moderne. Hipster, radical, prete-comunista, comunista-alla-moda-ma-fuorimoda, pezzente-X, compagno-che-non-sbaglia, vestito-male, eterodosso, tossico di paese.

K. manteneva la sua posizione e incassava.

Incassava volentieri. Teneva i RayBan nascosti, li avrebbe tirati fuori al momento giusto se ce ne sarebbe stata la necessità, conscio tuttavia del fatto che si trattasse di un articolo che i vari peri-terroristi non avrebbero saputo riconoscere.

-Lo so che c’è poco da vantarsi, però io mi occupo di queste cose. E comunque, per chiarezza, pure il vostro amico milanese è un fotoreporter freelancer, quindi alla fine non facciamo un lavoro così diverso.

Il milanese voleva replicare a modo, la francese lo bloccò.

La struttura del gruppo era noiosamente orizzontale. Nessun capo forte. Strano per qualsiasi gruppo umano. L’orrenda pretesa della democrazia totale. Un inganno che si sarebbe rivelato semplicemente pazientando ed osservando i livelli di arroganza dei singoli. Prima o poi qualcuno avrebbe abbaiato un po’ più forte o morso un compagno, giusto per qualificare il proprio rango.

Avrebbe dovuto attendere, ma l’impeto di denunciare l’inconsistenza di un idra, in termini di piena orizzontalità della catena di comando, prese il sopravvento sui suoi propositi di neutralità.

Lo disse. Ci mise un attimo.

-La domanda che tutto il mondo giovanile si pone è: Ma questo signor Pecora Alpha, ve lo siete inventato semplicemente perché non eravate riusciti a decidere chi fosse il vostro capo? Un movimento con un capo ultra-carismatico, che però non esiste. Leggendario in senso stretto. Che senso ha tutto ciò?

Una ragazza molto bella e coi capelli castani parve freddamente indispettita. Si rivolse alla francese domandando perché avessero spifferato tutto al primo coglione.

La francese rispose che era il sistema più efficace per promuovere la mitologia del leader rivoluzionario perfetto.

La questione era inerente quasi solo esclusivamente la propaganda.

Inoltre c’era anche una ragione vigliacca. Qualora Pecora Alpha avesse ucciso delle persone, agli occhi della cronaca, tali reati sarebbero stati imputati ad una persona che di fatto non esisteva. K. non conosceva il livello di informazione dei membri del Partito rispetto alla cosa. Aveva però intenzione di mangiare la foglia, e di trovare la giusta soluzione, dove per giusta soluzione andava intesa la soluzione che gli permetteva di tornare a casa incolume, godendosi il pezzo di terra ricevuto dal Partito.

-Ragazzi, voglio che sia chiaro, se il vostro scopo è appunto quello di creare una figura leggendaria, che per dire, io potrei anche intervistare, allora ecco, potremmo essere sulla medesima lunghezza d’onda.

Il milanese sembrava molto imbarazzato.

Un tizio con la barba brizzolata, seduto per terra, tra il tronfio ed il riflessivo, rispose che valeva la pena di sfruttare la cosa. Disse però che andava verificata l’affiliazione di K. a tale pubblicazione.

K. rispose di essere un freelancer che lavorava a contratto.
I più parvero sospettosi, altri non sembravano cogliere un filo logico che di fatto non esisteva. Si limitarono però alla fine solo ad appuntare le informazioni presenti sui suoi documenti e a dirgli che avrebbero ucciso lui e la sua famiglia se avesse fatto lo stronzo, rendendo pubblica la non esistenza di Mario Rossi.

Fulva, guardinga, e con un viso decisamente seducente, una delle varie para-rivoluzionare gli chiese:

-Quindi tu, di preciso, dove cazzo ti collocheresti?

L’accento sapeva di Bari o dintorni.

-Non mi colloco. Però mi collocavo. Comunque meglio essere stato ed aver smesso di esserlo che non essere mai stato niente. No?

La francese ed il milanese avevano già sentito questa frase ad effetto, e dato che l’avevano portato loro in riunione, si limitarono a sbadigliare.

Gli altri invece erano perplessi.

Il più vecchio di tutti, con giubbotto di pelle nero corto, pochi capelli lunghi pesantemente brizzolati raccolti a codino disse la sua:

-Non è chiaro se ci si possa fidare di te. Non è chiaro neppure se sia possibile ed utile sfruttarti per la nostra causa. Tu che cosa vuoi di preciso? In che modo pensi di trarre guadagno da questa storia?

-Voglio essere utile con la mia penna, o con la mia tastiera insomma. Darvi una mano sul fronte propaganda. Farvi passare per buoni e far passare l’idea che ci sia bisogno di una mano. L’unica ricompensa di cui ho bisogno sarà la fama di cui brillerò, come la luna brilla riflettendo la luce del sole.

Il vecchio aveva troppa esperienza per lasciarsi fottere.

-Reclutamento non fa rima con lasciarsi infiltrare, ma il senso della cosa per te sembra essere il medesimo.

Così tuonò contro il milanese e la francese per aver portato uno stronzo eterodosso nel loro rifugio.

A K. piaceva tutta quella paranoia, anche perché era ampiamente giustificata. Dalle sue letture serali al cesso dei classici della filosofia rilegati in pubblicazioni da pochi euro aveva tratto un insegnamento abbastanza importante rispetto alla possibilità di cavalcare la paranoia, trattandola come un dinosauro qualsiasi. Ciò che avrebbe detto, avrebbe deciso il suo destino. Era inutile pianificare. Inutile pensarci. In fin dei conti, come già precisato dal Sindaco, era stato scelto come agente para-governativo non per le sue abilità pianificative, ma proprio in virtù della sua capacità di improvvisazione, e del suo enorme, spropositato culo, sensu lato ovviamente.

-Dunque. È perfettamente normale che non vi fidiate di me. Anche io al posto vostro non mi fiderei di me. Perché farlo poi? Per garantirsi il solito articolo macchiettistico del cazzo su questo o quel movimento di resistenza ubicato in una provincia di merda? Per parlare di cosa? Di canne e discorsi retrogradi, se va bene ottocenteschi e se va male da sessantottini? No. Manco per il cazzo. Io sono qui per un’altra ragione, ben più nobile.

-Sentiamo, sentiamola quale è questa ragione.

L’autosvelamento. Esporre un fianco per beccarsi una coltellata. Se Cesare fosse stato più abile con le schivate se la sarebbe cavata. Bisogna muoversi proprio all’ultimo momento, magari beccarsela di striscio la coltellata. C’era arrivato. Non poteva evitare di farlo.

-Io sono stato mandato qui in quanto sicario.

Il silenzio si fece più pesante. L’intensità di sguardi diretta verso K. cambiò. Si fecero penetranti, di sete di sangue, di rabbia fredda.

-Ebbene, sì. Sono una spia. Ma una spia tendenzialmente senza padrone, e con un passato tutto sommato di sinistra. Sono passato attraverso varie situazioni del cazzo come questa, ed alla fine quando sono uscito di scena tutti i vari attori mi hanno sempre salutato sventolando il fazzoletto con cui si asciugavano le lacrime.

-Che cosa stai dicendo? Dove vuoi arrivare? La tua situazione è grave. Ti sei auto-qualificato come ostaggio.

-Me ne rendo conto. Ma dovete provare a vedere le cose in modo diverso. Dovete ascoltare. Non dovete rimanere arroccati. Dove pensate di andare diversamente? La chiusura è prigionia. Non durerete a lungo. Avete alzato troppo la cresta, avete rotto i coglioni in alto. Io sono un avanguardia senza valore. Dopo di me verrà gente molto più abile nello spezzare una vita.

-Ma noi ti ascoltiamo, maieuticamente ti ascoltiamo, vediamo proprio dove arrivi.

-Il mio ruolo in quanto sicario è quello di eliminare questa benedetta Pecora Alpha. La Pecora Alpha tuttavia non esiste. Non esistendo bisognerebbe valutare la possibilità che comunque possa avere un maggiore valore da morta che da viva.

-Che cosa vuoi dire?

-Gesù Cristo, Che Guevara, Kurt Cobain. Una faccia, una bandiera, un culto, una religione, insomma, un esempio. Il sacrificio necessario a far trascendere il rivoluzionario o l’artista in icona fuori dal tempo.

-Mario Rossi serve vivo.

-Mario Rossi vive e lotta insieme a noi.

Un apporto esterno. Qualcosa che potesse risolvere le cose dall’esterno. Risorse umane venute da lontano. Sostanze che si trovano in cucina. Spezie speciali, boccette magiche. Una bottiglia di vodka Barilla (Una Keglevich da sei euro insomma). La cavalleria.

Dissero a K. di attendere in bagno mentre si riunivano a proposito del da fare. Non era escluso che lo potessero davvero usare come ostaggio, o semplicemente trasformarlo in un cadavere-suppellettile da mansarda. A fargli da balia rimase la rossa.

-Hai fatto amicizia con quei due.

-Macchè. Sono tutti molto diffidenti. Lo siete tutti.

-È assolutamente necessario.

-Non siete neanche in clandestinità in senso stretto.

-Potremmo diventarlo da un momento all’altro.

-Come mai vi è venuta l’idea di questo Pecora Alpha?

Per qualche motivo si sbottonò. Ormai non aveva più senso avere dei segreti, stava parlando con un probabile cadavere.

-Siamo per un’organizzazione orizzontale. Strettamente orizzontale. A dire il vero la nostra cellula è l’unica al corrente della non esistenza di Mario Rossi. Le altre hanno bisogno di credere in un capo infallibile, e la polizia ha bisogno di un’esca. Credono che arrivando a lui e decapitandolo la situazione si risolverà da se, invece potrebbe essere esattamente il contrario.

-Bene, vedo che siamo d’accordo. Mario deve morire, in qualche modo.

-Non penso che la tua idea sia sbagliata. Ma tu che ci guadagni? Di lavoro organizzi funerali pirotecnici per personaggi inesistenti?

-Un certo partito mi donerà un determinato appezzamento di terra qualora io riesca in tale impresa. Conviene a me, conviene a voi, conviene al partito. Conviene a tutti.

-Sei davvero una spia in senso stretto.

-Spia è una parola che mi piace molto. Invece, ahimè, sono poco più di un impiegato. Preferisco di gran lunga lavorare dietro ad una scrivania ed immaginare di fare un sacco di cose mentre gradualmente mi dissocio, come un cubetto di burro si scioglie su una padella. Per chiarezza, non amo il burro, sono un meridionale, però ecco, lo trovo utile per preparare un soffritto a base di ashish mi segui?

Era chiaro come nello spazio di qualche minuto si fosse nuovamente innamorato. Era il modo migliore per mandare a puttane completamente il piano. Sembrava in qualche modo la riscrittura di un altro romanzo compresso in un racconto.

-Tu qui hai una specie di compagno? Un fidanzato? Un uomo?

-Perché me lo chiedi?

-Per il motivo più ovvio.

-Se anche lo avessi per te cambierebbe qualcosa?

-Probabilmente temo di sì.

-Secondo me non cambierebbe niente. Ti sei messo in una situazione di merda.

Veniva quasi da piangere a K. L’esito più probabile della faccenda sarebbe stato il suo diventare Mario Rossi. Diventare la Pecora Alpha ed essere ucciso dalla polizia in qualche modo. Peggio ancora, un attentato Kamikaze, o un incidente da proprietario di casa editrice.

-Quando le energie scemano, diventa più difficile. Senza uno stato emotivo da cavalcare le cose si incastrano male.

-Mi trovi d’accordo. Però non sono interessata all’argomento.

-Se mi uccidessero ti dispiacerebbe?

-Ti conosco appena, e se per assurdo tu provassi a scappare in questo momento, starebbe a me a quel punto farti fuori.

-Potremmo anche baciarci. Se non altro morirei senza rimpianti.

-Sei uno di quegli animali che vicino alla morte diventano viscidi?

-Forse è solo qualcosa di lateralmente svedese.

-Lateralmente svedese?

-La sindrome di Stoccolma.

Il milanese entrò in bagno e disse di tornare nella sala delle riunioni.

Le vetrate della sommità della chiesa erano colorate, prive però di decorazioni. Le pareti parevano pseudo-marmorate.

Lo stesso tizio che in precedenza si era mostrato polemico, l’anziano con il codino, riprese a parlare:

-Abbiamo discusso ampiamente sul da fare. La proposta che ci hai portato pare tutto sommato vantaggiosa. Per chiarezza, sarai tu però ad interpretare Mario Rossi, e quindi, per assunto dovrai morire.

-Non credo che possa funzionare.

-Come mai?

-I mandanti dell’esecuzione ovviamente conoscono la mia identità. Dovrei essere io ad ucciderlo, ed un suicidio apparirebbe implausibile.

K. era sorpreso dalla scarsa capacità di ragionamento dei separatisti. Probabilmente avevano solo bisogno di un pretesto morale per giustiziarlo.

-Un suicidio?

-Nel senso che non posso interpretare sia il sicario che la vittima contemporaneamente senza suicidarmi. Nessuno crederebbe che io sia Mario Rossi.

La linea di K. pareva coerente. Coerente a sufficienza da impedirgli di crepare, perlomeno in seno alla sceneggiata.

-Inoltre vorrei porre una condizione.

-Sentiamo.

-Voglio che la vostra compagna barese dai rossi capelli mi sposi. Qui ed ora.

I vari comunisti se la risero.

-Mi dispiace per te, ma qui la pensiamo diversamente. Siamo contro la monogamia. Siamo per il comunismo platonico sessuale.

K. ebbe un fremito di disgusto. Un disgusto di rilievo, importante, quasi come se le sue viscere volessero esprimere appieno la contrarietà a quello stato di cose eiettando non solo il loro contenuto, ma esse stesse fuori dalla bocca.

Tuttavia egli si sforzò di trattenersi, travasando tutto quel fiele nei suoi occhi e limitandosi ad un:

-Ne prendo atto. Mannaggia Cristo.

Immaginava un enorme pezzo di burro caldo in cui cadeva un grosso pezzo di fumo, partorito da una balena corriere di passaggio. Immaginava una intera sagra di paese dedicata alla sua pasta aglio, burro e fumo. Una padella enorme. Tutti i paesani storditi, poggiati sulle panchine, per terra. Tutti sincronizzati sulla stessa gamma allucinatoria. Tutti a immaginare giganteschi panetti di burro atti a solvere e risolvere dell’ashisch.

-Allora, che cosa mi proponete come contropartita?

La ragazza castana rispose:

-Della contropartita si occuperanno i tuoi mandanti. Da noi non avrai nulla, tranne un poco di collaborazione, e direi che si tratta già di tanto rispetto a quello che meriteresti.

-Cioè, cosa meriterei?

-Il piombo.

Disse il loro capo.

K. lo guardò a lungo. In effetti Pecora Alpha poteva essere proprio lui. In fin dei conti pareva essere il loro capo. Retropensiero in coda a retropensiero. Un giallo del cui finale non importa a nessuno.

Il classico mito dell’orizzontalità dei collettivi. L’orizzontalità e la democrazia sono traguardi irraggiungibili, in virtù della natura umana stessa, votata alla verticalizzazione.

-Accetto.

Rispose K.

-Cosa proponete?

-Tu che cosa proponi?

Lì per lì propose un manichino antropomorfo, imbottito di tritolo, da far esplodere davanti a qualche stazione di polizia.

Il piano era chiaro come non fosse adatto alla situazione.

Partirono una serie di digressioni più o meno in linea con il da fare.

K. da canto suo provocò con un ulteriore digressione. Richiese uno shaker, e disse di voler produrre il cocktail definitivo, da far eventualmente figurare come cocktail ufficiale dei vari rivoluzionari appenninici.

-Mi serve uno shaker, e sia chiaro uno shaker, non un cazzo di boston. Una padella, del burro, e…

I vari astanti erano dubbiosi.

-Beh, dobbiamo decidere se si debba trattare di qualcosa di fruttato o più sul cioccolatoso o vanillato.

Erano increduli.

Il loro capo spirituale, il già citato codino tuttavia intervenì:

-Qualcosa di cioccolato o vanillato.

-Allora servono anche latte, cacao in polvere, un qualche sedativo per la tosse o un ansiolitico. Per il resto abbiamo tutto. Ah, ovviamente anche del ghiaccio.

-Ok.

-Ah, dimenticavo. Anche della vodka. Possibilmente non troppo economica. Niente roba da discount, per favore.

Un paio di ore dopo il cocktail era pronto. Decisero di chiamarlo Appenninic Panzerfaust.

Un altro paio di ore dopo era notte, e la riunione esecutivo-logistica dei separatisti appenninici aveva cambiato completamente colore.

La rigida rossa aveva messo da parte buona parte del suo riserbo.

-Sai, comincio a pensare che forse non sei un cattivo acquisto.

-Vedi, la tua visione della faccenda è ovviamente errata. Una delle vecchie posizioni dominanti degli anni settanta era che le droghe facessero parte del macchinario para-borghese di demolizione del dissenso.

-Può darsi, può darsi. Però, a dire il vero, io ora come ora non sto capendo molto. Sembri quasi simpatico.

Si girò su un lato e vomitò.

Vomitò in chiesa, su un pavimento legnoso. La macchia e l’odore non sarebbero mai andati via.

K. l’aveva fatta grossa, danneggiando collateralmente una chiesa, ma in virtù del suo essere a sua volta storto a pressione, riuscì a passare sul fatto sacrilego.

-Ti amo.

Disse.

Lei non sembrava riuscire ad afferrare.

Era inutile. Doveva proseguire con la persecuzione del suo obiettivo.

Si alzò ed andò a parlare con il codino capo ideologico.

Il tizio si chiamava Vito Vitofazzi.

-Parliamone Vito, bisognerebbe arrivare a trovare una soluzione per questa faccenda.

-Non è momento. Hai spinto sul ricreativo. Noi non siamo quel tipo di gruppo terroristico volto all’autodistruzione afinalistica. Ci hai solo colto in un momento di debolezza.

-Me ne rendo conto. Ma vorrei che tale circostanza non avesse solo valore ludico, bensì francamente riorganizzativo. Dobbiamo trovare la quadratura del cerchio, risolvere, svoltare, trovare un modo di sistemare le cose. Mi segui?

-Non sono completamente sicuro che tu sia la persona giusta. Se non altro però hai avuto faccia di cazzo a sufficienza da tradire i tuoi mandanti.

-A me non interessa più di tanto il vostro intento eversivo. Io voglio solo quel pezzo di terra vicino al mare.

-Saresti stato disposto davvero ad uccidere Pecora Alpha se fosse esistito?

-Macché, alla fine sono un grigio pacifista. Avrei fatto da mediatore. Sarebbe diventato un pentito, o lo avrei, meglio ancora, dirottato su qualche più complessa questione sudamericana. Probabilmente in questo caso il distinguo con una eliminazione fisica sarebbe comunque stato flebile.

-Ho capito. Ho capito dove collocarti.

-Non dirlo.

-Tu sei un Andreottiano.

-No. Puoi pensarlo, ma non puoi dirlo.

Un secondo dopo Vito chiuse gli occhi.

Erano quasi tutto stremati.

K. tornò dalla rossa e le tenne i capelli mentre finiva di vomitare.

Sentiva muoversi qualcosa. Lo ignorò.

Etica?

No, paura.

Dovere?

No, paura.

Non c’era più niente che potesse nascondere a se stesso, al contrario della totalità che poteva simulare attraverso chilometri di cortine fumogene.

Si sentiva sprecato ed inutile allo stesso tempo.

Il cerchio non si lasciava quadrare. I suoi occhiali erano perennemente sporchi indipendentemente da quanto li pulisse.

Il milanese gli si avvicinò. I suoi ricci di media lunghezza erano abbastanza disordinati.

-Può succedere che cenere bollente trasportata dal vento possa essere scambiata per un ape?

-A me è successo.

-Sei il tipo di persona che pensa di poter delimitare un cerchio di possesso su una donna?

-Io starei anche per i cazzi miei, il problema sono loro. Il territorialismo è loro. Sono loro a identificarti come oggetto. Io sarei anche femminista, ma ora come ora l’inversione di ruoli è tale che se non fossi maschilista sarei nulla di più che un masochista.

-I tuoi paradossi con me non attaccano.

-Strano, ed allo stesso tempo assolutamente lineare. Questi paradossi falliscono con i troppo paesani (campagnoli) e con i troppo cittadini (stronzi borghesi). Detto ciò non credo che il mio tempo qui debba essere compresso nel produrre cornici su ognuno dei vari membri.

-Sei proprio un rompicoglioni.

K. era certo del fatto che non vi fosse soluzione. Magari ce n’era anche una, ma lui non era in grado di arrivarvi. Le sostanze lo avevano tradito, e al massimo riuscivano a dirottarlo su ambiti tangenziali, privi di senso e di senno. Treni diretti in zone periferiche e senza stazioni. Parentesi su parentesi. Un continuo esercizio di stile inutile. Servizio di leva nell’afinalismo. Frullatori che frullano aria. Orologi che ogni secondo segnano un’ora diversa. Un intestino modificato per produrre dei loop digestivi infiniti attraverso l’uso pratico di anastomosi confezionato sul modello delle classiche rotatorie stradali italiane. Niente più di una sega da tre quarti d’ora, piacevole, ma comunque sempre una sega.

-Caro Milanese, ma secondo te è da preferire una sega di livello, o una scopata alla cazzo di cane?

-Sempre e comunque la scopata.

-Già. Io sono d’accordo con te. Ma perché? Da un punto di visto sensoriale è meglio la prima, no?

-Non c’entra niente. È proprio che… sai, quando si è in due è diverso.

-In due. In due. Questo fatto della reciprocità. Quest’obbligo della reciprocità. Più vai a sinistra e più ti ritrovi a destra, e viceversa.

-Pensa piuttosto a come uscire dalla palude di merda in cui ti sei tuffato.

K. oramai veniva messo in difficoltà anche dal primo stronzo di turno.

Si scelse una poltrona, proiettò la testa all’indietro e cercò la svolta definitiva. Una soluzione valida. Non era detto che arrivasse, ma ci voleva sperare fino in fondo.

Faticava a tenere gli occhi chiusi. Rinunciò al proposito.

Sognò una pistola, un revolver. Un revolver che sparava a vuoto, ma che non era a salve. Si domandava dove stessero finendo quei proiettili. Arrivò alla conclusione che si trattava di proiettili in grado di curvare lo spazio all’infinito e di arrivare dove dovevano arrivare. Si schiantavano sul tronco di un albero senza lasciare alcuna feritoia d’entrata. Li immaginava incastonarsi nel petto di un qualche colletto bianco, sigillando il foro d’entrata, senza perdite ematiche, e senza produrre fori d’uscita. Quasi dei piercing interni.

Sognò la Tibillisi degli anni sessanta. Braccianti muscolosi, signore e signorine coi baffi. L’arrivo in città di un gatto delle dimensioni di una corriera. Una specie di gatto mammone. Una bestia tiranneggiava nella città, dormendo sul tetto della chiesa e cibandosi dei villagiani. Qualcuno aveva provato ad abbatterlo a fucilate ed aveva fatto la fine del topo. La faccenda si risolse sacrificando un bue al giorno al gatto, che sul lungo termine divenne amichevole e benvoluto da tutti.

Sognò di sposarsi mille volte, ogni volta vestito in modo più ridicolo. Le spose provenivano quasi tutte da ricordi di gioventù. Tutte le ragazze di cui credeva di essere stato innamorato. In ciascun sogno era contenuto anche un riassunto della vita matrimoniale, e di come si fosse poi finiti, in ciascun caso, dagli avvocati, anche senza franchi episodi di violenza domestica, per meri litigi illimitati. Piedi puntati su posizioni irragionevoli. Parcelle lunghe come i lunghi scontrini che conoscono bene i bipolari.

Aperti gli occhi l’unica cosa che gli era chiara era l’antica devozione adolescenziale alla sua primigenea misoginia.

-Non mi avranno. Sono interessate solo alle mie terre ed alla mia grana.

Uno degli astanti, grasso e brufoloso gli venne incontro: -Femministe del cazzo, la penso come te.

-Meno male che qualcuno la pensa come me. Se non altro per il fatto che neppure io la penso come me.

Era una sorta di mal di testa che lo guidava.

-Guido, ho la soluzione.

-Addirittura.

Molti dei rivoluzionari ancora dormivano.

-Ho capito tutto. Soprattutto i vari punti in cui ho pesantemente toppato. Adesso ho tutto chiaro. Sono pronto a ricominciare.

-A ricominciare cosa? Perché mi parli come se fossimo vecchi amici? Inoltre io non mi chiamo Guido.

-Non sono ancora tornato completamente lucido. Capiscimi. Il ritmo. La spinta. Possono essere difficili da trovare. Greggi di pecore amichevoli. Stuoli di meduse generose. Nuvole di api laboriose. Storni pronti a schiantarsi contro questo grattacielo o quella pala eolica. Sacrifici necessari ad ottenere l’intercessione della divinità. Chi la vorrebbe? Chi avrebbe il coraggio di rifiutarla?

Il suo interlocutore bofonchiò che non riusciva più a seguirlo, ed andò a collassare su un materasso appoggiato al muro. Un materasso ingiallito, certamente covo di una lunga dinastia di cimici ematofaghe.

K. provò nuovamente a interrogarsi sui propri obiettivi. Le soluzioni che gli sembravano ovvie alcuni istanti prima si erano dipanate. La disperazione di qualche secondo venne sostituita dalla certezza coatta che se fossero state delle vere soluzioni funzionali non le avrebbe dimenticate con cotanta facilità, il solco di felicità prodotta le avrebbe dovute difendere dalla dimenticanza. A dire il vero avrebbe voluto e dovuto dormire di nuovo, il sonno pareva vincente sul resto. Rimaneva dell’idea che all’interno di un sogno sarebbe riuscito a trarre la conclusione della faccenda. Non aveva poi neppure troppa paura. Non per coraggio in senso stretto, ma semplicemente per l’abitudine. L’attitudine al girare intorno, aspettando senza fare niente. Una soluzione dall’esterno. Una soluzione esterna proveniente dall’interno.

La fede in un deus machina superiore, una divinità beffarda, per carità. Una divinità con le idee poche chiare, ma che in qualche modo finiva sempre per tutelarlo. La sua vita come le vite di molti altri.

-Noi, siamo comunque, terroristi, no? Adesso lo sono anche io, giusto?

-No, tu no.

Dissero in coro quelli ancora svegli.

Si alzò dalla poltrona e si accasciò sul legno del pavimento. Collassò.

Non ci fu alcuna fase di addormentamento. D’un colpo si trovava altrove.

Al centro di un labirinto, in compagnia di un buffo signorino vestito di nero, capelli lunghi biondi e barbetta, soprabito lungo.

-Piacere, Stephan.

-Noi ci siamo già conosciuti da qualche parte, giusto?

-Probabilmente in casa di qualcuno.

-Mi ricordo un divertente ascensore con dentro un divanetto. In quel palazzo c’era anche la sede del sindacato degli insegnanti di religione. Inoltre credo fosse una casa infestata.

-Può darsi.

-Può darsi?

-C’era un letto caldo. Eravamo in due a scaldarlo. Dei piedi freddi. Poi arrivò un gelo maggiore, e poi più nulla.

Aveva una buffa ventiquattrore.

-Dove siamo di preciso?

-È un labirinto. Ma credo che ci sia da porre una interpretazione più profonda.

-Sentiamo.

A K. prudevano le mani. Dal signorino traspiravano nuvole di presunzione facilmente individuabili.

-Rappresenta in qualche modo la matassa di una sceneggiatura impossibile da sbrogliare.

-Ah, ho capito. E a te cosa te ne frega?

-Sono uno sceneggiatore! Non si vede?

-Ora che me lo fai notare, in effetti così sembrerebbe.

Si incamminarono. La loro camminata perdurò per parecchio.

Stephan, autoinsignito del titolo di moschettiere della penna non sembrava avere un’idea precisa di come uscire.

A K. la situazione non andava benissimo.

-È lo stallo ciò in cui siamo. Lo sai no? Ma perché stai guidando te?

-È un problema del giorno d’oggi. I saggi sono in silenzio per pudore, e gli imbecilli comandano. Non è questo quello che pensi di me? Non è questo che pensi dell’andazzo generale?

-Non sono proprio sicuro che la persona che ho di fronte a me ora sia quella che ho conosciuto in passato.

-Non potrai mai averne certezza.

-No, ma posso avvicinarmici.

-E come?

-Apriresti la valigia per favore?

-No.

K. sospirò lungamente.

-Aprila o ti spacco la faccia! Non ho tempo da perdere.

-Ehi, datti una calmata. Non conta come stai coi più forti, se ti rapporti ai più fragili.

Gli tolse di forza la ventiquattrore. La aprì. Era vuota.

-Bene, carissimo moschettiere. Quindi eri e sei proprio tu.

-Soddisfatto, eh?

-Mica tanto. Mi sfugge comunque il senso del mio e soprattutto del nostro essere qui.

-È ovvio che non sia chiaro. Non stai facendo niente per uscire dal labirinto. Non ti stai impegnando neanche un poco.

-Non credo in questo simbolismo di merda. Però se almeno avessimo una bicicletta… solo che con quel soprabito non credo che potresti usare una bicicletta.

-Questo lo dici te.

Continuarono a camminare. Stephan cercava di consolare K., ma sembrava che provasse a farlo unicamente per ottenere una qualche forma di approvazione, e per sentirsi comodo nel ruolo di chi poteva in qualche modo aiutare a risolvere la matassa.

Il piccolo moschettiere però proprio non ci riusciva.

-Sono sicuro che ne verrai a capo.

-A me serve un piano. Una soluzione. Non girare a vuoto insieme ad un coglione.

-Perché pensi che io sia un coglione?

-Non sopporto praticamente niente, pur sopportando troppo e senza supportare nulla. Figurati come io possa sopportare un figurante come te.

-Io non sono un figurante.

-Sto cominciando ad apprezzare sulla mia pelle il concetto di eterno ritorno.

-Non appena troveremo il centro tutto si risolverà.

-Il centro? Ma non stiamo cercando l’uscita?

-No. Il centro. Là potremmo assaggiare la rivoluzione.

Questo fatto di uscire dal centro presumeva l’esistenza di una sorta di botola o di scatola al centro del labirinto.

-Secondo me quando ero più ragazzo avevo degli spiriti guida migliori. Il mio progressivo impoverimento emotivo, cognitivo ed umano mi ha portato dove sono ora, a sognare gente più stupida di me solo per sentirmi meno insulso.

-Senti, non vorrei doverti mettere sulla mia lista nera.

-È una specie di minaccia?

-Minaccia o no, spero di essere stato chiaro. Il problema è che tu hai perso tutto quello che avevi di più prezioso. Quello che non hai perso non lo hai perso solo perché non lo hai mai avuto. E comunque hai perso la cosa più importante, cioè l’occasione di averlo. Gli anni passano, e la mancanza di coraggio in qualche modo ti presenta il suo amaro conto. Potresti cominciare ad accettarlo, no?

K. sorrise.

-Il discorso è appunto questo. Hai detto bene. Sei stato bravissimo. Un mediocre frustrato può comunque prendersela con qualcuno di ancora più sfigato. Purtroppo il primo premio per aver dato le risposte giuste non è nulla di utile o vantaggioso.

Caricò il moschettiere. Lo prese a calci in culo. Quello scappava, rimediando numerosi calci. L’inseguimento durò cinque o sei minuti. Arrivati grosso modo al centro del labirinto, spiccando un piccolo salto, gli piantò un pugno in faccia. Esattamente in quell’istante si svegliò. Il pavimento di legno della chiesa era abbastanza caldo.

Gli altri oramai erano svegli e parlottavano del più e del meno.

Finse qualche minuto ulteriore di collasso.

-Non possiamo fidarci. É ovvio.

-Uno come lui… sa di eterodosso da chilometri di distanza.

-Questa rivista di informazione per giovani poi, a giudicare dal tipo deve trattarsi di qualcosa che parla di costumi sessuali bizzarri, degustazioni di vino da discount, nuove mode in fatto di abbigliamento e sostanze d’abuso.

-Secondo me potrebbe essere addirittura una spia governativa.

-Con quella faccia? Al massimo potrebbe essere una delle poche spie ancora in attività di Postalmarket.

-Postalmarket?

A K. sembrava di essere stato abbastanza chiaro rispetto alla propria dichiarazione di intenti, ma lo spazio per il fraintendimento, come sempre nella vita, pareva illimitato. Meno capisci, più puoi fraintendere.

Qualcuno si avvicinava alla soluzione. K. poteva solo aggrapparsi alla speranza, ed al significato profondo del suo sogno senza significato. Si rammaricava molto per aver perso quell’entusiasmo giovanile legato alle varie illuminazioni sostanze-indotte. Oramai ne apprezzava solo le doti sedative, ma sapientemente riusciva a cavalcare ogni sintomo astinenziale. Godersi i sintomi astinenziali. Rispetto a tale argomento aveva scritto un pamphlet, inviato proprio alla rivista di merda di cui quegli altri parlavano, ma era stato rifiutato in quanto scambiato per una sorta di campagna contro l’utilizzo delle droghe.

Ci pensò brevemente. Pensò a quello che gli mancava. Pensò a quel coglione bloccato nel labirinto. Riempì i polmoni, convinto di stare respirando oltre all’aria polverosa anche lo spirito rivoluzionario degli altri, ammesso che ne avessero. Cercava di metterlo in rima con quel poco di odio verso il potere che aveva provato una quindicina di anni prima.

Con un’unica mossa balzò in piedi.

-Mannaggia Cristo, ho la soluzione.

Vito disse: -Pensavamo che non saresti tornato dal tuo luogo di dolore.

-Non era un luogo di dolore, ma solo di smarrimento. Di fatto un pellegrinaggio. Ho deciso di chiudere col masochismo ipsativo, ma questo è un altro paio di maniche. Scusate, volevo dire che è un altro paio di bocchini.

-Ho capito, ho capito. Ho capito che usi le parole come gli sbirri usano i fumogeni.

-In fin dei conti fa parte del mio lavoro, no?

-Taglia la testa al toro.

-Preferirei evitare di cimentarmi in attività tanto cruente.

-Smettila con queste battute.

-Va bene.

K. ripensò per un attimo al dolore di tutte le sue perdite, senza capire il motivo di quel flusso di pensieri e la connessione con la situazione in cui si trovava.

-Ormai sono qui. Abbiamo già valutato la possibilità di trasformarmi in un Cristo novello immolabile.

-Ecco, e quindi?

-Serve il sacrificio di uno di voi.

-Sei uno di quelli a cui piace fare il frocio con il culo degli altri, eh?

K. si rendeva conto di non poter tifare per due squadre che si affrontavano. Al massimo poteva svolgere il ruolo di catalizzatore, fingendo che si trattasse di qualcosa di neutro.

Uno scopo.

-Nessuno di voi ha, per dire, una cazzo di malattia mortale? Nessuno è un malato terminale? Nessuno ha un parente o un amico stretto a cui rimane poca aria da respirare? Nessuno ha per la testa idee relative al farsi fuori ed è disposto a dare un senso, un valore ed un colore a quelle idee?

Vito rispose: -Nessuno di noi morirà senza una valida ragione.

-Ok, allora bisogna optare per il piano B.

-E quale sarebbe?

-Mario Rossi rilascia un’intervista in cui dice di lasciare la guerra d’Appennino in favore di una battaglia più importante: una rivoluzione in Chapas.

-Spiegati meglio.

-Non mi va di essere didascalico, ma se proprio insistete… Invece di farlo morire da eroe gli si fa esportare la rivoluzione, facendolo ascendere ad un livello più alto di lotta. No?

Vito e gli altri questa volta non sentenziaronò alcunchè.

-Quindi Signor Rossi, quali sono le motivazioni che la spingono a lasciare l’Appennino in favore del Chapas?

-La guerra d’indipendenza dell’Appennino può essere combattuta con le forze che ci sono ora. I compagni hanno gli strumenti e le conoscenze necessarie per farcela. Abbiamo fatto la giusta esperienza, ed abbiamo fatto tutti bene. Siamo una grande squadra. Al contrario in Chapas ci sono grandi guerriglieri certamente, ma manca, diciamo, un capo carismatico (ndr fragorose risate).

-Non teme che senza il suo apporto la situazione in Appennino possa precipitare?

-Una squadra matura non ha necessità di puntare tutto sul suo numero 10. Anche i piccoli ruoli, quelli apparentemente insignificanti possono divenire determinanti. Quando tutti conoscono i fondamentali, e quando c’è lo spirito di gruppo, supportato da una solida rete logistica, la regia si fa da se.

-Quindi secondo lei il livello è così alto?

-Certamente. Non siamo una squadra amatoriale, non più; e poi oltre ad una grande preparazione tecnica c’è sicuramente un grande cuore.

-Pensa davvero invece che il suo apporto in Chapas possa essere così determinante?

-La situazione in Chapas è davvero drammatica, ma non li leggete i giornali? Non vale solo quello che posso fare io come singolo, quanto quello che si può insegnare ai rivoluzionari locali, in termini di trasmissione di un certo “know how”. E poi ecco, tra una doccia di umanità e l’altra, io vorrei unire il più possibile i cuori delle grandi famiglie rivoluzionarie che combattono nei cinque continenti. Mi spiego?

-Chiarissimo. Bene, io non posso fare altro che salutarla allora, e farle un grande, grandissimo in bocca al lupo per questa nuova grandiosa avventura.

-Ciao.

I rivoluzionari lasciarono andare K., certi tuttavia del fatto che il piano sarebbe fallito. Lo salutarono pieni di disapprovazione. Lui da canto suo si sentiva una merda per non essere riuscito a fare di meglio. L’intervista sapeva di posticcio, farlocco ed artificioso. Anche un ragazzino di seconda media, di quelli che siedono in ultima o penultima fila avrebbe sgamato l’imbroglio. Sapeva che non avrebbe avuto modo di rifarsi. Sapeva di stare lasciando l’ultimo pezzetto di cuore in quella mansarda, immolandolo all’infatuazione per quelle rivoluzionarie tanto carine quanto invasate. L’articolo venne accettato probabilmente in quanto redatto su carta intestata CIPC. Collettivo Indipendentista Panappenninico Comunista. In basso a sinistra troneggiava il motto “l’Appennino é un altro discorso”.

In maniera assolutamente controintuitiva la povera plebe dell’internet invece abboccò in pieno, e così sembrò fare anche il Partito. La mitopoiesi avvenne, e si sprecarono fiumi di inchiostro sulla figura del rivoluzionario appenninico. Non mancava tra i giornalisti specializzati in tuttologia chi si lanciava nel paragonarlo a Guevara.

Successivi reportage fasulli vennero successivamente prodotti dal coordinamento per la liberazione dell’Appennino per documentare il ruolo della Pecora Alpha in Appennino. In pochi mesi gruppi autorganizzati rivoluzionari fiorirono lungo l’Appennino, fino alle basse Marche.

Prima o poi anche i Narcos si sarebbero messi alla caccia di un fantasma, dato tutto il polverone prodotto. Nessun guerrigliero del Chapas d’altro canto si era permesso di mettere in dubbio il fondamentale ruolo giocato da Mario nella guerriglia.

K. tornò a casa sua. Il Partito cedette i terreni. Lui si dedicò ad un piano di ripopolazione delle mantidi nell’areale in cui viveva, comprando qualche centinaio di euro di ooteche su internet. Con l’arrivo della primavera si trasferì in tenda nel suo nuovo terreno. Non aveva intenzione di edificare. In fin dei conti, forse, gli bastava che non edificasse nessuno in quel pezzo di terra a ridosso della scogliera. Il Comune ed il Partito smisero di rompergli le scatole, ormai totalmente convinti della totale inaffidabilità del personaggio, malgrado i vari successi ottenuti. Gli lasciarono comunque in dotazione gli occhiali fornitigli per la missione. Erano più che sufficienti a schermarne gli occhi dal sole dell’alba, che guardava in faccia ogni mattina.