Parlando d’un cane (Una preghiera).

Diciamo che alcune questioni non sono proprio facilmente risolvibili. Perlomeno non fintanto ci si affida a lassismo e rassegnazione. D’altro canto l’azione medesima conduce a inevitabilmente nefasti effetti collaterali.

Dai, prendi.

Rischi, raschi.

Temporeggia, sbrigati.

Affonda, annaspa.

Respira, scatarra.

Il tempo di cambiare carattere e si è già spento il pensiero. Il pensiero focale posto nel retro-pensiero dello scritto qui scriventesi. Per carità. Alla faccia del cazzo. Allargarsi, va bene, però entro certi limiti. No?

Nel suo piccolo antro

scaccia le mosche

numerose e avide

livide e fosche,

che per la loro progenie

cercano casa.

Tra quelle piaghe

tra quelle pieghe

di carne nera

o comunque violacea

ha cambiato forma

non è più solo un cane

è tornato indietro

sinapside, rettile,

perdi il pelo

nella malattia

diventi tutt’altro animale.

Mamma che puzza,

mamma che schifo,

squame, piastroni,

isole di pelo

in mare di calvizie.

Povero cane.

Come venuto dall’inferno

fortemente infermo

in tutto tranne che nell’intelletto.

Una sofferenza lucida,

prerogativa che solitamente

non riguarda neanche noi poveri cristiani,

che nella malattia

la testa perdiamo.

Non v’è pace,

non v’è pace,

schiere di insetti

vogliono il loro pezzo di cane

manco fosse un pezzo di pane.

La racchetta elettrica fallisce,

le urla e gli schiaffi

con le mosche funzionano per poco.

Allora, un’idea?

Che idea?

Un piccolo anfibio,

a guardia d’un cane morente.

Un rospo a far la guardia

ad un fu cane da guardia.

Dice che lo scritto deve avere un proprio ordine per potere risultare convincente (la cosiddetta forma del testo, o forma del pensiero). Sicché è giusto che noi lo classifichiamo nella forma, lo definiamo giustamente per sapere con cosa stiamo avendo a che fare. Facciamo ciò nella misura in cui conoscendo un dato ente, meglio lo possiamo affrontare.

Il grazie al cazzo è ovviamente dietro l’angolo.

Così non ci confondiamo nel confondere appunto un grosso rospo con un piccolo ippopotamo, perché una simile leggerezza, nel continente sbagliato, o meglio ancora, nel continente giusto, potrebbe ovviamente essere per noi letale.

Riallacciandoci al di prima discorso, oltre alla definizione dello scritto, la quale ancora risulta come non pervenuta, in seconda analisi figura d’interesse anche lo scopo dello scritto medesimo.

Tanti possibili scopi. Alcuni addirittura conativi, i migliori. Quelli frutto della propaganda, un dolce frutto che quando mangiato non disseta solo il poveraccio consumatore, ma al contempo, in misura di dieci volte maggiore, anche lo stesso produttore. Capita, divagando, giustamente di perdersi. Lo scopo qui quale è? Informare sulla sofferenza. Quale sofferenza? Quella d’un cane giunto, probabilmente, al termine della propria esistenza. In anni? Diremo dodici passati. In epoche della mia vita? Metà superiori, tutta l’università, e quel bel buco nero fuori dal tempo interposto tra termine dell’università e primo impiego. Niente da poco, diciamo.

Un cane di livello?

Assolutamente.

Un cane buono?

Senza dubbio.

Una preghiera all’antimonio

che non si pieghi al mercimonio

del farsi corrompere dai parassiti

in articolazioni, cute, reni e visceri riuniti.

Una preghiera all’allopurinolo,

che lo tenga per terra

e non gli faccia spiccar volo.

Lo scopo ultimo?

Probabilmente magico.

Li morti de tutti li pappataci.