Enrico e la disciplina degli idrocarburi.

Non si dava pace in quella pianura, in mezzo alla desolazione della campagna immersa in impenetrabile nebbia. La svolta in arrivo, probabile ma intangibile, percepita come lontanissima, ma comunque coglibile nello stesso scorrere del vento.

Egli in fondo al proprio cuore sapeva di non essere un uomo comune, ma malgrado ciò, in questa circostanza, non poteva che sentirsi smarrito, debole, incapace, senza forze.

Il suo lavoro di amministratore delegato, il difficile compito assegnatogli dallo Stato Italiano, quello di provvedere allo smantellamento della società petrolifera di Stato, tale Black Petrol, in contrasto invece con la sua ferrea volontà di mantenere la società in piedi e di rilanciarla, rendendola competitiva con le società estere operanti nel medesimo settore. Non più inerme gattino, marginalizzato, con la spina dorsale spezzata, ma un cane massiccio della medesima mole degli altri grossi cani stranieri.

I.

Nei momenti in cui il nervosismo diventava particolarmente opprimente, Enrico era solito dialogare con un se stesso più giovane, immaginario, non contaminato dalla rassegnazione di un adulto, speranzoso, vivo. Un se stesso più giovane risalente ai tempi del proprio impegno come partigiano cattolico, in Emilia prima e in Lombardia poi. Un distillato di giovinezza auto-riferita. Un qualcuno che con il concetto di responsabilità avevo fatto i conti in maniera superficiale. Un se stesso non ancora a capo di un contingente di 40mila uomini, come poi accadde sul finire della guerra.

Sapeva bene che nel presente in cui si trovava intrappolato, il gioco che stava facendo poteva finire maluccio, anzi, diciamo proprio malissimo. Il solito passo più lungo della gamba. Una giusta ma pericolosa strategia. I vari nemici, quelli interni velenosi, e quelli esterni esplosivi, erano tutti in attesa di un suo passo falso, o di un suo eventuale passo corretto, da punire e purgare a dovere. In ogni caso ci sarebbero state delle conseguenze, sarebbe cambiata solo la mano che avrebbe sparato.

Nessuno di loro avrebbe tollerato una bocca in più in quella ciotola dove “sgomitavano di bocca” fameliche e ingorde quelle avide sette sorelle.

Può un uomo solo combattere contro il mondo intero per il bene delle masse? I suoi ideali quanto debbono risplendere per portare la sua missione a compimento? Esiste un “ideale degno” in questo senso? Quanto dovrebbe essere universale tale ideale per potersi poggiare in toto sulle spalle del popolo?

Ma soprattutto, questo popolo, se lo merita davvero un salvatore?

Aveva intuito che malgrado il piano Marshall, lo sviluppo industriale italiano avrebbe avuto bisogno di un certo catalizzatore, occorreva superare un collo di bottiglia esistente. L’Italia necessitava di essere energeticamente indipendente, e in ragion di ciò occorrevano le dovute materie prime in quell’ambito. Il petrolio, l’oro nero e il Gas Naturale, l’oro intangibile. Trovarlo però, quel cimitero di viventi ridotti a mera energia chimica, per decomposizione e purificazione delle loro carcasse, non era così facile. Sulle prime erano state identificate alcune vene minori, ma nulla di significativo, nessuna “vena di livello”, nulla che potesse fare la differenza per la Nazione e permettere il mantenimento della Black Petrol.

-Enrico, Enrichetto, ci siamo cacciati in un vicolo cieco. Questa storia non pare produrre nessuna via di uscita adeguata, e a dire il vero neppure si paventano possibili uscite secondarie, uscite di fuga. È come se tutti gli sforzi di questi anni non fossero serviti a nulla. Un amore per una Nazione che non sempre ti ricambia.

-Sì, hai ragione, ma ti ricordi quella volta che nella Bassa Milanese, quella volta che avevamo i rastrellatori alle spalle…

-Forse vi fu anche un Fo.

E via col rimembrare paure e gioie, timore della morte, freddezza da ricercare per mischiarla col coraggio, ed essere in grado di andare fino in fondo in una delle tante missioni volte a liberare l’Italia. Piccoli tasselli d’un più grande mosaico. Ciascuno fa la propria parte, ciascuno ci mette la propria arte. Quando però si chiudono tutte le porte, ecco gelido l’alito della morte. La somma di tutte le cose fatte può fare la differenza quando ci si ritrova nell’ora fatale? O forse, piuttosto, tutto viene livellato e la somma d’atti finisce sempre col dare zero come risultato?

Densità di pensiero, rarefazione degli atti, questo causa la mezza età. Pensieri disfattisti, perdita della speranza, in seno ad una campagna della Pianura Padana, in una cornice di nebbia densissima, congeniale, per imperscrutabilità, alla medesima situazione di conflitto e difficoltà ineludibile, in cui verteva Enrico. Aveva camminato per così tanto tempo e così sovrappensiero da non avere idea di dove si trovasse la sua auto, o anche solo in che direzione potesse essere una strada percorsa da automobili ove elemosinare un salvifico passaggio in direzione d’un qualsiasi centro abitato.

Impossibile orientarsi. Un uomo con le sue attuali responsabilità non avrebbe dovuto agire così d’istinto. Ancorato alla sua di sopravvivenza vi era, del resto, il destino di molti uomini della sua Nazione.

La temperatura non era per nulla gentile, ed il freddo e l’umidità si stavano insinuando attraverso i suoi vestiti, condannandolo ai primi brividi, cui sarebbero seguiti i secondi brividi, e così avanti, fino all’esaurimento delle capacità di compensazione di un corpo umano, e la susseguente morte per assideramento. La disperazione gli aveva fatto questo brutto scherzo. Fargli prendere una strada senza uscita. Condurlo ad un esilio fatale, come un cane o un gatto che si cercano il posto migliore per morire, lontani dagli affetti, lontani dai propri cari, lontani dai legami col mondo. Un antro naturale, dove ricongiungersi con la materia organica, o con un Dio ipotetico.

-Enrichetto, sembra che qui il freddo compirà quel lavoro sporco che vari fascisti non sono riusciti a portare a termine allora. Ciò avverrà prima di quei cambiamenti epocali che avrei dovuto realizzare. Prima del compimento completo del mio fluido destino di acceleratore sociale.

-Non dire così. È solo nebbia. Se il tuo corpo rimarrà ben caldo e concentrato, la maledetta nebbia sparirà prima del tuo ultimo respiro, e avremo la possibilità di salvarci. Nel frattempo infila la giacca all’interno dei pantaloni e chiudila completamente. Dopodiché metti le mani in tasca. Se tu dovessi morire, io morirei con te. Non tanto per il dispiacere, ma proprio per il fatto che non potresti più immaginarmi.

Giacca nei pantaloni, col dorso poggiato su un albero, Enrico si accendeva per scaldarsi l’ultima sigaretta del pacchetto.

-Potrei accendere un fuoco, ma qualsiasi ramo sembra bagnato. Tutto è coperto da umidità. Sono davvero condannato.

-Te lo ripeto, una volta ancora. Respira a fondo ed immagina pozzi di petrolio ardenti, senti il fuoco del tuo impeto rivoluzionario, la speranza di cambiamento, il fuoco stesso dell’inferno. Fallo e sarai salvo, fallo e saremo salvi.

-Non credo. Questa è davvero la fine. Non ci possono essere differenze tramite i miei soli atti. Se sono finito qui, con questo tempaccio e questa nebbia c’è un motivo. Non potevo davvero trovare la vena principale da solo, senza strumenti e senza personale a seguito. Come ho fatto ad essere così scellerato? Io sono venuto qui apposta per morire. Adesso mi è chiarissimo. È difficile venire a patti con se stessi, sembra che il nemico più pericoloso fosse alla fine quello interno. Quello internissimo. L’altro me stesso col quale divido il corpo, niente di trascendentale, solo che facendo una serie di scelte nella vita, non sempre si è esattamente a proprio agio con se stessi, e rimpianti e rimorsi si possono scavare una propria nicchia d’odio, auto-riferita anch’essa. Nella misura in cui ci sei tu come compagno di conversazioni, simbolo di vitalità entro alcuni versi ingenua, devono allora esistere anche forze oscure dentro di me, come dentro ogni uomo. Forze più o meno oscure, o forse si tratta solo di una coscienza desiderosa di vendetta. Ciò che agisce all’interno di molti suicidi. Una falce che si fa leva, una leva che si fa falce.

-Te lo ripeto, ancora respiri ed ancora parli. Vuol dire che sei ancora vivo. Fino a quanto non avrai terminato il calore nel tuo corpo questa storia, la nostra, non potrà dirsi del tutto conclusa. Arrendersi vuol dire morire, mai come in questo caso. Anche se mi rendo conto, benché giovane, o proprio perché giovane, che l’incertezza può da sola produrre un danno concreto e aguzzo.

La linea di fuoco della sigaretta scorreva a vari millimetri al secondo. Enrico si ben riempiva i polmoni.

-A saperlo che sarei venuto a morire in mezzo al nulla mi sarei portato una stecca di sigarette. Almeno sarei morto ingannando il tempo. Invece dovrò morire con un tempo lentissimo, in un posto dove la vista non può regalare soddisfazione, a causa di questa barriera d’umidità condensata. Una coltre, una muraglia.

Diventare un non essere, all’interno d’un non luogo.

-La stai vedendo troppo male. Magari non sei venuto qui per morire, ma solo per affrontare te stesso. Per mutare pelle, gettarti indietro la paura, e trovare il giusto slancio. Sai, il percorso è più o meno questo: a vent’anni si è ebbri di spinta vitale, si hanno cannoni fortissimi, ma la mira è scarsa, e gli obiettivi sono continuamente mutevoli. A trent’anni invece si è conosciuta affondo la virtù dell’immobilismo, la capacità di rimanere fermi, e si teme la vecchiaia, come si ha paura di molte differenti reazioni possibili alle proprie scelte eventualmente avventate, ma figlie di desiderio, voglia, coraggio. A quarant’anni si è trovata la giusta sintesi tra spinta vitale e ponderatezza, ma si comincia a diventare vecchi per davvero, e quindi anche ridicoli nell’ascoltare i propri bisogni primari.

-Enrichetto, io mi avvicino alla morte, e tu ne guadagni in acume. Non sembri più il me stesso ventenne.

-Niente affatto, lo sono ancora. Visto però che io ti voglio salvare, ma tu non ti vuoi salvare, e che se tu muori muoriamo entrambi è bene che muoia solo io, procedendo al rito di invocazione.

-Come fai a morire? Sei solo un amico immaginario, per quanto debbo dire, assolutamente autonomo e pieno di ingegno. E cosa intendi per rito di invocazione?

-Un amico immaginario può essere un nucleo autonomo. Un pezzo di mente che si separa, divenendo consigliere. Può essere ucciso attraverso un blocco. Più che ucciso relegato, costretto, sigillato. Ma un blocco perpetuo equivale alla morte. Del resto anche dopo la morte si vive come anima nell’aldilà, no? Un pensiero che non viene pensato rimane comunque sotto forma di traccia riproducibile, ma non viene risuscitato. Così succede a vari ricordi che abbiamo in soffitta, e ai vari dischi che non infiliamo mai nel giradischi. Se non sono riprodotti sono solo materia senza vita. Quanto al rito di invocazione ogni risposta verrà da sé.

Enrichetto tirò fuori una pistola, una pistola fatta di pensieri, con le sembianze di una rivoltella.

-Fratellone, se così mi posso permettere di chiamarti, io provvedo al rituale di invocazione. Non so chi potrebbe arrivare, ma stanne certo, dovrebbe bastare a salvarti quella pellaccia a cui tu vuoi rinunciare.

-Che cosa hai intenzione di fare?

Con una rapidissima estrazione Enrichetto fece roteare la rivoltella, se la puntò al volo in bocca e fece fuoco. Il sangue e le cervella sgorgate dalla testa di trasformarono immediatamente in molti petali di rosa, che arrivati al suolo marcirono istantaneamente lasciando solo una traccia nerastra.

-Enrichetto, perché l’hai fatto? Cosa ti ha spinto a un simile gesto?

Il cadavere di Enrichetto, appena caduto in terra si consumò, tornando al suolo e divenendo della medesima consistenza in cui erano mutati i petali di rosa. Una macchia d’umido, nutrimento per il sottobosco.

-Che simbolismo misterioso! Ma a cosa è valsa la tua morte? Svaniranno con essa i miei ricordi di gioventù? Come farò senza di te? Ricorderò ancora chi sono? Saprò sopportare questi momenti di peso?

Poi silenzio e ulteriori strati di depressione, cercando l’accettazione dell’imminente conclusione.

Apprezzare il freddo per le sue qualità di assassino lento e impassibile.

Il mistero di un fiato che si spezza.

Il confondersi con una natura avvolgente.

-Ci hai provato amico. Forse non hai retto l’ansia del momento e basta. Forse sei morto per darmi una scossa, ma non ha funzionato. Aspetterò che sia finita anche per me. Aspetterò e basta, non avendo io rivoltelle, né altro, come cappi ad esempio, con cui appendermi a quest’albero.

Una luce in lontananza, come una lanterna a petrolio. Una sagoma. Due sagome. L’una tetra e l’altra luminosa.

Un respiro pesante ed anche immateriale, un latrato da sotto terra inviato. Creature ubicate nel confine tra il mondo immanente e quell’altro.

-Salute.

Diceva l’uomo incappucciato con vermiglio mantello. Più porpora che vermiglio, e di giallo intarsiato, con motivi che riproducevano uccelli di fiamme. Il suo viso era parzialmente nascosto dal cappuccio. Pareva un giovane invecchiato precocemente. Qualche cicatrice sulle labbra, occhi spenti, e capelli raccolti in cotonose ciocche, benché non fosse proprio facile comprendere che tipo di pettinatura avesse, proprio per via del cappuccio. Indossava pantaloni scuri, e stivali da bovaro, massicci, rinforzati, ma consunti.

-Salute a voi, chi siete?

Al guinzaglio dell’uomo incappucciato una misteriosa bestia. Un cane nero, con che di saurino, lucertolesco, come se il pelo fosse cresciuto non su pelle di mammifero ma su pelle di rettile. Ciuffi di pelo particolarmente rigidi, quasi cheratinizzati, si stagliavano in alto, delineando come delle creste cutanee, ancor più draghesche.

Due paia di zampe anteriori, ed un paio di zampe posteriori. Totale di sei zampe. Si voltò in posa innaturale, si grattò dietro l’orecchio, e con una specie di starnuto produsse fiamma d’un metro dalla propria bocca.

Enrico sussultò prima e impallidì poi.

-Chi o cosa siete? Traghettatori?

-Macché. Anime che errano in queste terre di nulla. Il posto migliore dove non essere cercati, un luogo dell’oblio. Perfetto per nascondere colline di cadaveri o insabbiare verità spiacevoli e pericolose. Le nebbie naturali e continue rendono questo luogo pericoloso per un uomo che vi si avventuri, peggio ancora per un bambino. La mancanza di infrastrutture lo rendono protetto rispetto al mondo esterno. Qui le bestie in grado di vedere attraverso la nebbia la fanno da padrone. I campi sono lasciati incolti dai contadini per quasi tutto l’anno, esclusa una breve parentesi estiva. Ma l’inverno è nostro, nostro di noi che svaniamo nella nebbia, e che dalla nebbia ci materializziamo. Noi che con la nostra presenza possiamo all’occorrenza diradarla, questa nebbia burrosa, per mezzo di una luce sedimentata nel terreno stesso. Tu invece, uomo, cosa ci fai qui?

-Ero venuto a schiarirmi le idee, ma ho capito in ritardo cosa volessi fare.

-Qualcuno ci ha evocato, richiamato, indotto qui. Tu sei stato?

-In un certo senso sì. Una parte di me perlomeno.

-Alzati, cammina con me e col mio guardiano.

-Che razza di animale vuole essere questo “guardiano”?

-Una specie di reincarnazione di un drago che venne ucciso dai malvagi Visconti.

L’incappucciato rise di gusto.

-Come se un essere sovrannaturale potesse essere ricacciato all’inferno dagli uomini usando picche e frecce!

-Un essere sovrannaturale?

-Certi mostri si trovano ancora a questo mondo. Anche se erano più facilmente avvistabili nei tempi antichi. La conoscenza, sai, li ha spaventati. Gli agglomerati urbani hanno vinto. L’uomo li ha sterminati in segreto, e si sono dovuti rintanare nell’ombra, sott’acqua, nella nebbia, nelle grotte, sotto terra, nel gelo, o in altri luoghi ameni lontani da sguardo e mano umana.

-Ma come sarebbe a dire?

-Sei molto curioso di conoscere la natura di questa bestia, mi pare. Ti dirò solo che non pendeva pesantemente né da una parte, né dall’altra, ma certamente all’occhio umano doveva apparire terribile, in quanto amante della carne di neonato e di bambino. Si nutriva della potenza degli uomini incorrotti, gli unici ad esserlo, come saprai, sono i più piccoli. Così molti ne ha ingoiati, e ne ha guadagnato in vita lunghissima, pressoché non consumabile. Ma ormai va considerato a tutti gli effetti alla stregua d’un fantasma. Le sue carni sono state spolpate dai nobili, in terra di Lodi. Le spoglie sono divenute reliquie da prete. La sua immagine è impressa su un certo blasone. Ma la sua anima, forte, impetuosa, prode, si è coagulata in un corpo in grado di contenere nuovamente quella bollente volontà.

-Non credo di starti seguendo.

-È normale. Ma leggo in fondo al tuo cuore con facilità. Tu medesimo ti sei separato da una vita precedente, convertendoti, proprio come ha fatto la mia bestia.

-Io ho provato solo a realizzare un destino che mi sembrava doveroso, mettendo il mio ingegno e la mia volontà al servizio di queste terre. Ne ho guadagnato in nemici, ed a quanto pare anche perso in salute mentale, dal momento che ho visto suicidarsi un mio amico immaginario, ed ho abbracciato infine il medesimo proposito passivamente. In aggiunta a ciò, adesso, sto avendo conversazioni con probabili diavoli. Dire che sono ancora in vita mi sembra una bella esagerazione.

-Ma quali diavoli, e quali traghettatori. Potremmo, date le circostanze, considerarci anche noi in qualche modo artefici del tuo destino. Degli aiutanti insomma.

-Basta! Basta! Devo avere perso la testa. Già accettare il concetto stesso di “destino più grande” è un’opera di allontanamento dalla realtà. Le uniche opere che contano sono quelle messe in moto dalle nostre mani.

-Complimenti per il masochismo! Se così fosse allora voi uomini sareste liberi. Ma liberi non lo siete mai; gli interessi dei presunti “tutti” non possono collimare con la sete dei pochi che davvero possono. Il tuo ruolo non mi sembra quello di un potente, ma quello di un missionario. Hai ucciso una parte di te per raggiungere i tuoi obiettivi. Hai fatto una parte del lavoro, più o meno consapevolmente. Hai seppellito la tua tensione regressiva. Ora però devi seguirci.

-Per andare dove?

-Il tempo delle domande non è giunto e non giungerà. Il tempo per le constatazioni all’interno della tua sfera d’intelletto invece sta per accanirsi, perlomeno nella sua prima parte.

Enrico seguì il viandante insieme alla sua strana bestia.

Si rese conto che poco lontano dall’albero dov’era appoggiato c’era un sentiero battuto nella terra.

-La domanda a questo punto è…

-La domanda?

L’ottundimento forte comporta che a causa d’eccessi di stimoli interni ed esterni, si delinei un quadro di paralisi da eccitazione. La scienza ovviamente non lo ammette poiché si tratta di una installazione fantasiosa.

Comincia a dimostrarsi più che amichevole il pastore del cane nero.

-Allora, ricapitolando, io adesso parlerò in modo da non esser agevolmente capito. Mi presterò ad una tua eventuale, e spero corretta, interpretazione.

-Che cosa?

-Su, hai capito. Ma prima di ciò ti farò una domanda: -Come mai ti schierasti proprio coi partigiani cattolici? Lo sai che noi facciamo parte dello schieramento avverso, giusto? Noi che ti stiamo aiutando.

-In che senso? Siete discepoli del diavolo? Avevo ragione allora!

-Come esponi male la faccenda, un uomo del tuo livello dovrebbe meglio esprimersi a riguardo di questioni simili a quelle inerenti il sesso degli angeli.

-Nel senso che sono quisquilie?

-No, nel senso che si tratta di temi alti. Temi per cui serve una ragione tagliente, pazienza, e capacità di capire quello che ti sta succedendo e quello che ti stanno raccontando, con un certo anticipo. Maggiore è la bravura e più consistente diventa l’anticipo. In caso di bravura massima le parole diventano assolutamente innecessarie, il silenzio a quel punto si trasforma nella massima eloquenza, e la vera forma di comunicazione diventa il colpo d’occhio. Fossilizzarsi su un ricordo. Ricordarsene e purgarlo. Rievocarlo, decantarlo, stratificarlo. Non lasciarlo stare, modificarlo ogni volta, stravolgerlo fino a farlo diventare completamente diverso. Ripetere svariate volte il processo, fino a scordarsi chi si era, fino a modificare completamente la percezione di se ed i propri obiettivi, non necessariamente in meglio. Cinque anni, che diventano dieci, che diventano tredici. Tredici anni.

L’incappucciato scosse con un dito le proprie labbra mentre emetteva un fischio.

-Fra tredici anni dovrai pagare il tuo conto. Fino ad allora vivrai in gloria. Sappi che prestandoti al nostro servizio pagherai con una pesante sacca la nostra collaborazione.

-Ma io non voglio niente da voi! Solo poter tornare a casa.

-Ne sei sicuro? Eppure il mio cane ha fiuto buono.

-Fiuto buono per cosa?

-Per tutti gli oli di roccia, gli oli di pietra. Gli oli minerali situati nel sottosuolo, ed anche le più evanescenti riserve di gas.

-Fior fior di scienziati, geologi e ingegneri stanno cercando la vena. Perché ci dovrebbe riuscire un cane?

-Comincio a notare in te una certa insolenza. Comportati come si conviene, e soprattutto abbi fede. La fede è una chiave che può aprire porte sconosciute, analogamente alla magia, la quale però richiede a sua volta, come tassello implicito, ovviamente la stessa fede, fede nella magia medesima. I cani si sa, hanno olfatto superiore, figurarsi poi un cane sovrannaturale, figurarsi poi un cane che di per se stesso può carburare. Diciamo che in un certo senso lo stiamo incaricando di consegnarti il suo personale tesoro sommerso di drago.

Il cane da canto suo si voltò come se avesse capito. A volte lo fanno i cani. Certo, se a farlo è un cane che cane non è, una reazione del genere andrebbe valutata come più che naturale, aldilà della natura della bestia decisamente preter-naturale.

-Occorre che tu faccia uno sforzo, Enrico. Parlami del tuo principale obiettivo.

-Non ci vuole molto. Rilanciare la nostra nazione, e far si che al tavolo dei potenti noi italiani non si sia quel gattino che, provando a cibarsi dalla ciotola dei bracchi, finisca, miserabilmente, con la schiena spezzata, morendo in pochi minuti.

-Insomma, vuoi che questa nazione rialzi la testa? Come se fosse possibile diciamo.

-Perché non dovrebbe?

-Perché voi italiani, o noi italiani, non siamo un popolo, ma una commistione di popoli arrabbattatamente tenuti insieme da un nome, Italia, che nulla rappresenta. Anzi, alcuni lo fanno risalire all’arcaico nome indicante la Calabria! In un certo senso, quindi, siete tutti Calabresi!

-Non ne vedo il nesso e non capisco questo spirito. È una nazione ancora giovane, ma con voglia di lavorare, e di rendere gloria a quanto fu in passato, non solo sotto Roma, ma anche in seguito. Rendere onore ai nostri antenati che picchi di ingegno sono stati.

-Un grande fervore il tuo. Ti consideri loro erede?

-Quanto io consideri me stesso, tra alti e bassi, importa davvero poco. Un uomo senza qualità d’ingegno ma dotato di sola tenacia, può comunque portare a termine il suo compito.

-Cosa sei disposto a sacrificare di più importante per raggiungerlo questo scopo? Bada bene che la vita non vale come merce di scambio, in quanto hai dimostrato di non tenerci granché, essendo stato poco fa sul punto di gettarla.

-Io ti dico che la mia vita è quello che sono disposto a dare invece. Non puoi giudicare un uomo da un singolo momento di debolezza, per quanto infimo e abissale esso sia.

-Questo lo dici tu. Noi spiriti peri-infernali dobbiamo giudicare tutto. Ma teniamo conto nella somma più o meno tutto quanto. Il passato, il presente, ed anche il futuro che possiamo con una certa precisione immaginare. Sai, esiste un corso degli eventi abbastanza statico, che solo in pochi sono in grado di modificare. Il fatto che questi pochi siano in grado di modificarlo non impedisce a nessuno però, né ad altri uomini, né a noi effettori oscuri, di cancellarli dal mondo con un soffio.

-Se è davvero come tu dici che senso ha vivere e lottare?

-Il senso c’è comunque. Opporsi al destino prefiguratovi da altri uomini, i più cattivi, i più forti. Coloro che si puliscono le suole delle scarpe sulle nuche dei poveracci, quelli che vi fanno abbeverare dal loro piscio e nutrire della loro merda. Quelli che inventano sistemi di cose, di idee, per tenervi sotto giogo. Coloro che producono falsi bisogni, non sussistenziali, velenosi, auto-sostenuti. Il vortice delle droghe figurate. Nulla però che il contante non possa lavare. In fondo più che di contrapposizioni manichee in senso stretto si tratta di ruoli intercambiabili. Qualcuno, in queste terre, in futuro dirà: -Ad un ciclo siamo macellati, ad un ciclo siamo macellai. Un ciclo riempiamo gli arsenali, un ciclo riempiamo i granai. Così è, aldilà delle corrette citazioni che formalizzano talune dinamiche.

Enrico provò a guardarsi le scarpe mentre camminava, riuscendo malapena a scorgerle. Riflettè su quanto detto dal losco padrone del cane. In fin dei conti si trattava di punti di vista già analizzati. Si preparò a rilanciare.

-Tu mi condanni per la mia paura, ma non ho conosciuto un solo uomo saggio che non ne avesse. Di impavidi molti ne ho visti, utili alla causa, qualunque sia la causa, ma di vita breve, e di opere limitate di solito. Molti sono stati anche coloro che pur avendo un fine nobile si beccarono una pallottola o finirono in un crepaccio prima d’aver assolto il loro compito.

-Questa è sicuramente una valida posizione, ma attento a non cadere nella formicolante svista. Un uomo senza paura è uno scellerato, ma chi non riesca durante il manifestarsi dell’occasione a metterla da parte, la paura, ne rimane paralizzato. Meglio di me saprai che mancando il tempismo, al massimo si posson intavolare discussioni sull’anacronismo. Se non c’è il coraggio a controbilanciarla, la paura, è solo un mezzo di paralisi, non solo fine a se stessa, ma addirittura dannosa. In grado, nella migliore delle ipotesi, di salvarti la vita. Di salvare la vita a qualcuno che poi viver potrà solo come vigliacco, per il resto dei propri giorni. Zavorre di rimpianti, pesanti come borse cariche di sassi.

-Dunque mi stai dicendo che in fondo al cuore debbo di nuovo trovare il coraggio?

-Non lasciarti trasportare, non dare di matto. Non sottometterti al furore, per quanto piacevole sia. Un uomo è un uomo, mica un dio. Trovane la sintesi, tra paura e coraggio, e raggiungi infine l’impeto, lo slancio vitale, in cui tutto è chiaro, e la potenza accumulata in una vita, finalmente diventerà sfogabile, inarginabile, spiegantesi nella sua nuda vera forma, distruttrice o creatrice. Quest’ultimo particolare è ovviamente dipendente dal tuo orientamento in seno all’asse principale, quello del bene e del male.

Passi pesanti come punti di consapevolezza raggiunti. Enrico pensò: -Non più immobilismo formale, una fiammella di speranza. Ma perché queste nuove consapevolezze? Come fa un emissario del diavolo a fornire così giusti consigli? E perché le cose dovrebbero potersi risolvere ora, rispetto a qualche ora fa? Perché il traguardo dovrebbe essere più vicino? Perché mi sento sollevato?

Disse il pastore del cane misericordioso: -Fintanto arriveremo nel gran cimitero delle vite vissute non tarderemo a incontrare altri rimasugli di spirito, rimasti attaccati a questa o altre terre, alle loro dolorose vite, e qui concentrati per motivi così ovvi da non dover essere neppure spiegati.

-Ma dove ci troviamo? Siamo ancora nel mondo terreno?

-Te l’ho già spiegato, quando i mondi collidono, compaiono spauracchi d’ogni genere.

Giusto il tempo di finire di parlare. Il cane si guardò intorno, e con grande sorpresa d’Enrico emise fiamme vere, fiamme di livello, come se nello stomaco nascondesse un incendio. Fiamme di tre, quattro, cinque metri. Fiamme in grado di rivelare ciò che era nascosto nella nebbia, e di scacciarla per un bell’areale, smuovendo l’aria intorno a se, dal fuoco imponente resa eccezionalmente mobile, fino a sparecchiarla, come fanno certi maghi particolarmente abili tirando via la tovaglia da una tavola imbandita, senza rovesciar neppure un calice.

A nebbia risolta si palesò in arrivo, a cavallo di cammelli, un bel gruppo di beduini. Cammelli bianchi.

Plausibilmente berberi, come l’etno-geografia vorrebbe suggerirci, nel caso perlomeno che fossero cavalli, ma essendo cammelli quest’aggettivazione perde di valore. Indossavano abiti blu, e blu parevano pure le loro pelli. Un tipo particolare di beduini, i cosiddetti Tuareg.

Guardarono intensamente, senza porgere saluto alcuno per pochi ma dilatatissimi secondi.

-Chi sarebbero costoro, o guida della nebbia?

-Rimasugli, morti delle guerre coloniali. Popolazioni indigene, padroni della propria terra, scacciati, uccisi, sottomessi, sangue inquinato dal bianco padrone. Ne avete saggiato le carni, crocifissi i corpi, lasciati mangiare dai corvi, dopo aver provato a renderli sacchetti di piombo, facendo ululare i vostri fucili.

-Non noi italiani! L’Africa del Nord è stata preda francese!

Ci pensa bene e poi capisce l’errore di aver valutato solo quella occidentale.

-Beh, a dire il vero hai ragione, anche italiana, ma d’un altra Italia, un’Italia a cui mi sono opposto.

-Certo, di sicuro, ma la tessera giusta di quel partito nero l’avevi anche te, suvvia, sii sincero.

-E va bene, l’avevo. Ma per ovvie ragioni! Da morti non si possono fare rivoluzioni!

-Suvvia, te la do giusta. Non ti contraddico ancora, è una vecchia ferita della coscienza la tua, ma non pare ben richiusa. Rispetto alla questione del rispetto dei locali che ne pensi? Vuoi schiacciarli anche tu come gli altri con avide concessioni? Vuoi lasciarli morire di fame mentre vi mangiate la loro ricchezza? Vuoi schiacciarne ancora le ossa sotto il vostro piede straniero?

-Nossignore! Ci sarà il giusto compenso. Proveremo a rompere le regole che vigono nel mondo dello sfruttamento delle materie prime nei paesi del terzo mondo. Saremo cani coi cani, ma non cani col gattino.

-Promesse che potrebbero lasciare il tempo che trovano, o che addirittura potrebbero non lasciarne proprio di tempo, aggirando le regole preimpostate di questo detto.

Il Tuareg capo estrasse la sua scimitarra. Una lama screziata anch’essa di blu ed indaco. Le sue mani presentavano scaglie simili a quelle del cane sovrannaturale. Con la lama disegnò in qualche misura, nell’aria, una semiluna.

-Non chiedermi perché, Enrico, ma tali avi morti di colonialismo hanno deciso di dare la loro benedizione ad un occidentale come te, uno così…

Non continuò. Non si addiceva alla sua personalità d’esprimersi in modo crudo e volgare.

Cedettero il passo, continuarono il loro percorso nel nulla, con le loro cavalcature silenziose, le quali non emettevano alcun rumore.

-Bella la vita dei fantasmi, vero? Potersi muovere per lunghe distanze a velocità variabili, ma in potenza senza produrre rumori, o al massimo imitando quelli del vento.

-Perché, o guida, hanno accettato di benedirmi?

-Sai, noi fantasmi abbiamo una marcia in più. Sappiamo leggere nel cuore della gente, andando oltre aspetto e riserve formali. Superando le comuni resistenze, e le spine perimetrali che ciascuno ha. Hanno visto in fondo ed hanno deciso di fidarsi. D’altro canto però, potrebbero anche avere sbagliato! Sempre di interpretazioni si tratta, per quanto precise possano essere.

Chi lo sapeva se avevano fatto bene a fidarsi.

Ancora camminare, camminare per ore, in un paesaggio che appariva sempre uguale, che opponeva al bianco della nebbia le stesse sagome d’alberi spogli, come ripetuti in sequenza. Sempre gli stessi, sempre lo stesso momento, come anche la stanchezza, che non diminuiva né aumentava, ma rimaneva nelle gambe, fossilizzata nello stesso istante, rendendo l’impressione che il loro obiettivo si mantenesse sempre ugualmente distante.

Una distanza colmata dalla percezione di stare affondando in un terreno che, per umidità raccolta, aveva raggiunto la consistenza delle sabbie mobili. Un argilla bagnata in grado di sostenere solo parzialmente il peso degli uomini.

La guida disse la sua: -È tempo d’un’altra sosta intermedia.

Il cane di nuovo oscillava fiamme dalla bocca, pizzicando la nebbia, e nuovamente diradandola.

-Cosa abbiamo qui di nuovo?

Immersi per metà nelle argille ingorde numerosi colletti bianchi. Le bianche camice che furono inamidate, ora erano lerce di melma. Le cravatte inzuppate, provavano ad uscirne, da quella melma come i golosi nell’inferno di Dante, e come questi trovano al loro cospetto un cane mostruoso.

-E questi chi sono?

-Chiediglielo, no?

-Chi siete voi nella melma impantanati?

Un coro di voci:

-Facci uscire!

-Porgici un bastone!

-Trova una liana!

Almeno una corda!

-Non abbiamo fatto nulla!

-Non più del necessario per costruirci una posizione!

-Abbiamo proposto soluzioni nuove!

-Abbiamo creato posti di lavoro!

-Abbiamo importato ricchezza!

-Abbiamo posto i mattoni per economie nuove!

-Abbiamo donato il nostro cuore per il comune interesse!

La guida intervenne: -Non dargli retta. Non sono finiti qui per caso, direi, a naso, che sono nel posto adatto. Il posto per chi di coscienza non ha avuto alcuno scatto, ed ha barattato il cuore con carta-moneta.

-Non capisco, è una sorta di contrappasso?

-Avidi e pezzi di merda. Hanno trattato la terra come il loro cesso personale. Hanno sfruttato gli uomini, indirettamente, senza colpo sparare. Hanno ucciso muovendo i soldi, condannando alla fame, o delegando squadroni della morte. Anche quelli tra loro che non hanno ucciso si sono comunque avvantaggiati delle morti, ed una volta che l’anima è stata sottratta dai loro caldi corpi, qui sono stati costretti.

-Ma non capisco, perché dovrebbero essere in una dimensione di confine. Sono forse anche io morto e questo è uno spicchio d’inferno?

-Niente affatto, siamo nel bel mezzo del nulla nel cuore della pianura padana, come dovresti già avere capito. Inferno è una parola grossa. Terra del nulla mi pare una definizione molto più corretta per queste lande. Ti sei già scordato il precedente discorso sul confine? Ne abbiamo già parlato. Non hai smesso di respirare. Sei già quasi salvo.

Continuavano a elemosinare quelle grigie facce:

-Non puoi lasciarci qui! Dacci una mano. Ti ripagheremo.

-Ti copriremo d’oro e ti aiuteremo in tutto quello che devi fare. Con noi stringerai un patto d’oro.

-Cosa ti costa? Non te ne pentirai. Laveremo col sangue il selciato che tocchi con le suole.

-Ognuno di noi conosce un segreto. Ognuno di noi conosce un posto diverso dove far transitare la moneta.

-Fidati e non riuscirai più a contarli quei quattrini.

-Ti chiediamo solo una piccola mano, ed in cambio sarai un vero Re Mida.

Intervenne la guida: -Non hanno niente da offrirti. Inoltre, nulla ti entrerà in tasca, da nessuna entità superiore, dimostrando per questi pietà. Se vuoi cercare un bastone sei libero di farlo, ma l’unica azione che ti è concesso con esso di fare è suonarglielo in testa fino ad ammutolirli.

-Ma io non potrei…

-Eppure dovresti. Ma che tu lo faccia o meno non cambia niente, rispetto al loro sentimento di ipocondria. Non ce la fanno proprio a chiamarlo senso di colpa. E allora è bene che rimangano là, per metà seppelliti, finché non avranno maturato i giusti argomenti e sentimenti. Ora andiamo avanti, non posso proprio guardali, poche cose mi fanno altrettanto schifo.

Un ulteriore camminare. Una possibile riflessione senza approdo fisso. Un senso di confusione generale. Immagini plastiche avvicendate dalla nebbia. Se prima il nostro amico si sentiva strano per il conversare con un se stesso più giovane, ora si trovava abbastanza vicino alla consapevolezza della perentorietà d’un auto-ricovero psichiatrico.

-Quando sarò uscito da questa situazione, ammesso che vi sia un’uscita, mi rivolgerò ad un professionista.

-Professionista di cosa? Te l’ho già detto che il gas te lo porgiamo noi in dono. I geologi li dovrai chiamare comunque per le cartacce e tutto il resto, ma l’esatta ubicazione, te la forniremo noi.

-No, io parlavo d’un professionista nel campo dei matti. Recinto in cui credo ormai di avere titolo e merito per entrare.

Ancora passi, ed ancora fiato condensato, un fiatone placato, tuttavia, dall’emergere dall’ombra di strane pinne di squalo metallico, e tronchi sventrati d’apparente cetaceo.

-Di nuovo caro cane metafisico mio, dirada la nebbia, trattala come il verde è sconvolto dalla mietitrebbia.

Il cane obbedì, prima che la guida smettesse di parlare. Probabilmente il suo fiato eccitato era già stato per qualche secondo caricato.

Dalla nebbia aperta emersero i resti di aereo. Una coda, le ali. Bruciati rottami d’un velivolo plausibilmente esploso in volo. Un guasto? Una bomba? Una materializzazione istantanea di gas con relativa accensione?

-E questi rottami cosa sono?

-Il tuo futuro.

-Il mio futuro?

-Questo non si può cambiare. In nessun modo. Potresti provarci in realtà, evitando di prendere aerei per il resto della vita, ma finirebbe in maniera simile. Come tu stesso hai supposto può cambiare la mano che sparerà, o la tipologia di pistola, ma qualcuno farà fuoco, poiché la tua missione collide con vari corposi interessi.

-Quindi che dovrei fare?

-Ritirarti se vuoi campare, e morire per il senso di fallimento. Prepararti a morire in gloria invece, se vuoi splendere e portare luce.

Respiri profondi, naso che si inumidiva ed occhi che lacrimavano.

-Non ne ero propriamente al corrente.

-Così funziona, fattene una ragione. Noi siamo qui in veste di consiglieri, ma non possiamo esprimerci troppo chiaramente. È chiaro no?

-Come no.

-Poi sta a te recuperare, e capire di buono cosa c’è da fare. Guardati le spalle, ma considera che il biglietto per l’altro mondo è già stato pagato.

-Hai da offrirmi qualche altra soluzione?

-L’ho già fatto. Questo è il pacchetto completo. Sennò c’è la rinuncia totale. Te la senti di rinunciare?

-È una bella domanda, ma non ho ripensamenti. Forse il mio eventuale sacrificio sarà quel che sarà. Spero almeno utile.

-Allora vuoi andare avanti?

-Sì. Fatto trenta, facciamo trentuno. Mi sono sempre mosso in modo accorto, ed è per questo che ancora respiro. Tradire gli altri mi spaventa, ma soprattutto temo il tradire me stesso. Vale più la vita o un’etica? Per il vile di sicuro la vita, per me forse più la seconda. In fin dei conti una parta di me aveva già deciso di morire oggi. Scampata una morte certa grazie ad un aiuto sovrannaturale, beh, diventa chiaro che il tempo che mi rimane è tutto tempo in più. Inoltre, se fossi morto oggi, la mia famiglia si sarebbe anche dovuta subire tutta la speculazione dei giornali e tutto il resto su un eventuale suicidio passivo. Tanto vale…

-Tanto vale inseguire. Inseguire e forse riuscire. Inseguire è forse riuscire. Forse riuscire e poi morire. Seguimi ancora per un poco. Abbiamo quasi finito.

Un percorso d’una certa durata. Boschi che si addensavano, boschi che si rarefacevano attraverso varie radure. Consistenza del terreno che cambiava. Il tutto scandito da parole tanto sagge quanto prive di qualsiasi significato.

-Ti ammiro, nella misura in cui si possa ammirare un uomo mortale. Ti ammiro nella misura in cui si possa ammirare chi è disposto al sacrificio per un bene maggiore. Ti schifo per il fatto che una volta finito di respirare smetterai anche di esistere. Ti schifo per il fatto che tutti quanti voi mortali avete delle anime così poco dense, che senza un corpo a contenerle, evaporate e vi disperdete, senza lasciare traccia di voi. Serve coraggio per cambiare vita. Ci si guarda avanti e ci si scorda del resto. Molti lo fanno, ma prima o poi, tristemente arrivano i rimpianti. Per fortuna che c’è la morte che ogni tanto vi separa dai vari strati di miseria.

Enrico non rispose. Provava a svegliarsi. Provava a cercare di trovare un segno del trovarsi all’interno di un brutto sogno. Pensava che con le medicine giuste sarebbe potuto uscire da quella situazione. Pensava ai pazzi che aveva conosciuto, a quelli che erano impazziti sulle montagne, non sopportando il peso della guerra civile. Infine prese coscienza di tutto quel percorso, provò a farne un sunto, usando la sua avventurosa vita come chiave di lettura. In fin dei conti poteva davvero essere quella la soluzione che aspettava.

Il cane si fermò, e guarda il proprio custode.

-Enrico, Tarantasio non è proprio sicuro sicuro di lasciarti il suo tesoro.

-Come mai?

-Una volta trovato il giacimento queste terre verranno private della loro più grande ricchezza.

-Intendi il gas?

-No, la desolazione.

-E quindi?

-E quindi ci siamo affezionati al posto. Ma sono certo che altrove potremo creare un posto simile, o tornare di nuovo qui una volta esaurita la vena. Speriamo che tutto intorno non si riempia di scheletri di dopolavori minerari!

-Non capisco.

-Non c’è niente da capire. Pensi che i fantasmi non si affezionino ai posti? Il luogo comune nel merito parla chiarissimo. Pochi enti sono territoriali quanto i fantasmi medesimi. Le case infestate sono difficili da disinfestare, ed in quei casi si parla comunque di fantasmi minori, figurati quando si tratta di fuoriclasse come noi.

-Quindi ve ne andrete da qui?

-Questo, se permetti, non è propriamente affar tuo.

Altri passi, ancora passi. Infine una estesa radura, più delle altre, un vasto campo senz’alberi.

-Benissimo, questo è il posto!

Disse il custode del cane.

Ed il cane, Tarantasio, emise una fiammata enorme, quasi una lancia di fuoco, sbattuta a destra e a sinistra, con immensa foga, in grado di spazzare via la nebbia a perdita d’occhio. Non più nebbia v’era, ma cielo plumbeo rimaneva.

-Eccoci Enrico siamo arrivati.

-Siamo arrivati?

Il cane ringhiò ai piedi d’Enrico, ed emise calore in grado di terrorizzarlo.

-Qualunque moda, passata e futura, inerente i cani virili, impallidisce e diventa esecrabile rispetto ad un cane che è anche drago, non trovi?

-Certamente.

-Qui comunque riposa la massima parte dell’anima del drago, insieme al corpo di piante ed animali, organismi marini, estinti eoni fa. Dalla loro morte i macchinari troveranno movimento. Nulla si crea, nulla si distrugge, vabbè, di sicuro sai anche il resto. Quanto a noi, abbiamo ampiamente discusso sul come la pensi. Fai quello che devi fare, ma ricordatelo, la tua vita ci appartiene, poiché se tu sei catalizzatore della storia, noi siam stati catalizzatori della tua storia personale, e ti abbiamo anche salvato la vita oggi.

-Io vi ringrazio.

-Non ci devi ringraziare. Al giusto momento vorremo il nostro compenso.

Tarantasio si riempì d’aria, e ruttò una palla di fuoco che si erse a molte centinaia di metri d’altezza esplodendo.

-Di sicuro qualcuno arriverà.

Si allontanarono, lasciando Enrico in quella campagna, in compagnia d’uno strano tepore climatico, non in linea col freddo invernale.

Nel giro di un’ora arrivarono i soccorsi.

Quanto al resto, è grosso modo storia, ampiamente documentata dalle cronache del tempo. Le parole della strana compagnia non erano menzogne, e il gas effettivamente sotto terra in grande quantità si trovava, quantità sufficiente a salvare la Black Petrol, ed a permettere a quell’Italietta un balzetto nel mondo delle potenze industriali. Seguendo i consigli dei suoi strani amici dal terreno emanati, Enrico non si fece mai fregare sul tempo, ed anzi, concentrò l’impeto facendo esercizio di perfetto tempismo, agendo machiavellicamente, anticipando i vari nemici, interni ed esterni, ma questo come già detto, è storia.

Contravvenne tuttavia alla regola di non prendere aerei, poiché come già gli era stato spiegato nulla sarebbe cambiato se anche l’avesse rispettata. A distanza di tredici d’anni da giorno del suo strano incontro, su un volo privato, mentre già ci si trovava a circa diecimila metri d’altezza, una hostess si accorse che c’era qualcosa che decisamente non andava a bordo del volo. Un grosso cane, nero, dall’aspetto innaturale, camminava tra le fila di sedili.

-Ma cosa è? È un mostro? Chi l’ha fatto salire? E perché è così brutto?

-Si rilassi signorina, non lo riconosce? È la bestia sul logo della Black Petrol. Il nostro animale guida, il nostro vessillo, il nostro logo, il nostro blasone. Certo, il fatto che sia qui, per quanto ci renda onorati, probabilmente non depone positivamente rispetto alla lunghezza rimanente della linea della nostra vita.

Il cane si sedette, e guardò a lungo Enrico negli occhi.

Fumo usciva dal suo naso, come da un complesso bruciatore di sigarette.

Parlò, cosa che prima mai aveva fatto in sua presenza:

-Il tempo dell’inganno è finito. Sei stato onorevole nel tuo gioco. Hai mosso bene le tue pedine. Ma il tempo a tua disposizione è finito. Non ti crucciare tuttavia, se ora io non fossi qui, ci sarebbe comunque un ordigno ben nascosto, e finirebbe grosso modo nello stesso modo.

-Mi dispiace per l’equipaggio. Io mi ero già rassegnato a questo destino quando ci siamo conosciuti.

-È tempo ormai, e non poteva essere dato giustamente alcun preavviso. 

Così il cane espirò a fondo la sua grande riserve di gas combustibili, un po’ della propria anima evaporante. Nessun odore, ma Enrico capì l’andazzo con un po’ di anticipo rispetto alla hostess ed al giornalista a bordo. L’aereo si riempì di gas, e dopo uno starnuto del cane, esplose in volo.