L’ultima avventura del gatto Svelto.

Il dì che Svelto fuggì dal bagno in cui era confinato, rimasi piuttosto di merda.

Stava maluccio mi dissero. Una infezione urinaria o qualcosa del genere. Il lungo pelo nascondeva una profonda magrezza, quel tipo di magrezza che costeggia e anticipa l’imminente trapasso.

Tuttavia il gatto non si arrese al crepare in una “prigione dorata”, ed al primo colpo di vento sufficiente ad aprire la finestrella del suddetto bagno, andò a rincorrere quella libertà che tanto gli era stata cara.

La mia lontananza mi impediva di prendere parte alla cosa. Così il rimorso lasciò spazio al delirio.

Il cane ci aveva abbandonato da qualche tempo. Il cane a cui lui era affezionato. Io me ne ero andato dopo un annetto passato giù con lui. Mi mancava, ma non sapevo se io ed il cane gli mancassimo nello stesso modo. Arrovellarsi nell’interpretazione del sentire d’un mammifero carnivoro. Forse sono l’unico al mondo che ne piange davvero la scomparsa.

In fin dei conti la sua gamma valoriale era abbastanza compressa.

1. Affetto dei e verso i cari.

2. Gatte calde compatibili col suo calore.

3. Eventuale prole da addestrare con schiaffi e carinerie.

Uscito dalla finestra attraversò il giardino. Sapeva che il tempo che gli rimaneva era poco. Un’ultima grande impresa, ma quale? I suoi calori lo avevano distrutto. Qualche malattia che covava dentro lo stava consumando. Non era più il gatto bellissimo che era stato solo fino ad un paio di mesi prima.

Era sempre stato abituato a prendersi in qualche modo quello che voleva. Un italiano medio. Con la forza, col raggiro, con la seduttività.

Superato il muretto del giardino, proseguì per un altro giardino e poi un altro, ed un altro ancora.

Il suo vecchio padrone era un ricordo lontano, incapace oramai di aiutarlo.

Nel pieno possesso delle sue capacità mentali di gatto cercò un epilogo migliore, o addirittura, e forse meglio, un non epilogo.

Si diresse ad est, cibandosi da ciotole di cani, e mangiando insetti e topi sulla strada. Non era un banale istinto a guidarlo, era la fortuna che gli aveva sempre sorriso, e che in qualche modo faceva ancora il possibile per aiutarlo.

Proseguì a lungo il suo percorso, schivando qualche auto coi fari spianati, pur con la mezza tentazione di collidere. Si lasciò alle spalle le casupole dai tetti bassi e piani.

Continuò fino a quando cominciò la campagna. Sentiva come l’eco di una vecchia sepoltura di un suo predecessore. Un altro gatto di casa.

In fin dei conti confidava di lasciare un poco di vuoto nel suo padrone. Era ormai certo del lieto evento finale, peraltro neppure lieto, solo evento finale.

La sofferenza di un gatto quanto vale per una persona? Non è una persona, no di certo, ma comunque su un gatto un sacco di cose si possono proiettare, fino al farlo diventare quasi uno straniero, una persona che non parla la propria lingua, ma che in qualche modo riesce a farsi capire.

Andava nella direzione del mare, ma contava di fermarsi un poco prima. Superò il mulino a vento, superò il bosco del Rio, ed infine raggiunse un piccolo rilievo pseudo-montuoso pieno di grotte, tale Argenzia.

Erano le prime luci del mattino. Era un poco prima dell’alba. Diciamo le quattro.

Era arrivato là per un motivo, un motivo sconosciuto.

Il re dei tassi di zona riposava gli occhi su una grossa roccia. Altri mustelidi intorno. Più d’una faina, vari tassi più giovani, un paio di martore, delle donnole, ed un nutrito gruppo di volpi in gruppo.

I carnivori competono tra di loro, ma quello era un evento speciale.

-Dunque gatto, come mai vieni da queste parti? Il tuo posto è in città, aldilà del bosco.

Chiese il tasso.

-Sono qui per un motivo preciso. Cerco conforto tra voi miei pari. I gatti di città hanno perso la loro braveria. Il mio epilogo è tra le vere fiere di campagna, da cui, lontanamente discendo.

-Tu appartieni agli animali di città. Coloro difesi da tetti, ed alimentati a croccanti. Coloro che conoscono l’abbraccio dell’uomo. Noi conosciamo dell’uomo solo il boato del fucile, e i latrati dei suoi sciocchi servi canini.

-Oh, questo è vero. Ma io non sono qui per trovare aiuto in senso stretto. Vorrei sedere con voi per un poco, per il poco tempo che mi rimane.

-Gatto, non ci siamo capiti. Sei malandato di sicuro, ma qualcosa nei tuoi modi mi dice che non sei un vero randagio.

-E non lo sono infatti. Sono gatto di salotto, ma anche di frasca e di bordello. Ho fatto una doppia vita per anni. Ho conosciuto l’amore d’un padrone ed anche il suo abbandono.

-E quindi, ora, abbandonato, vieni a cercare l’amicizia di noi poveracci?

-Non si tratta di lotta di classe. Non esistono sfide tra randagi e animali selvatici.

-Ah, no?

Una faina si avvicinò.

-Mi ricordo di te. Ti ho visto in città.

-Ah sì? Beh, sai, sono, o meglio ero, abbastanza noto nella strada dove abitavo.

-Ti ho visto camminare dietro ad un uomo ed accanto ad un cane. Lo stesso cane che la stessa notte ha provato a farmi la pelle, mentre cercavo solo un poco di sangue di gallina per il mio sostentamento.

-Mi stai dando del delatore? Quel cane era mio amico, ma se ti può sollevare, neanche lui c’è più.

-Sì, mi solleva, ma non cambia la tua situazione, quella di gatto domestico amico degli oppressori.

-Ma quelli non sono oppressori. Certo sono egoisti, ma non più di noi. Vivono schiavi di vestiti e case. Si riposano parecchio ma non gli basta dare un morso ad un pezzo di carne per sentirsi sollevati. Fanno vite di merda quasi quanto le nostre.

-Taci parassita! Tu sei gatto da salotto!

-Faina, vacci piano. Non sai manco cosa è un salotto!

Le volpi si avvicinarono in gruppo, fatto abbastanza strano.

-Secondo me, gatto, tu ignori il fatto che una volpe è sempre una volpe, ed in mancanza di cibo un gatto può mangiare.

-Guardatemi bene care volpi, le mie sostanze le ho spese nel tentativo di lasciare traccia di me, di gatta in gatta per i futuri gattini. La mia carne è arida, ci sono solo ossa e organi distrutti. Fatemi un piacere, tenetemi compagnia, e quando smetto di respirare, prendetemi per collo e lasciatemi là sulla cima della montagnetta.

-Ah, dici eh? A noi sembri un poco paraculo come animale, come tutti i gatti del resto.

-Come tutti i gatti di livello vorrai dire.

Svelto si raggomitolò sul sasso accanto al sasso maggiore del re dei tassi di zona.

-Raccontaci una storia re dei tassi. Una storia su di un gatto che muore tra sconosciuti, poveracci come lui, divenuti compagni nel momento della morte. Un gatto che si possa reincarnare in un gattino, suo figlio, per rimanere accanto ad un padrone lontano, che prima o poi tornerà a piangerlo.

-Dormi micio. Sei venuto dalla città per incontrare noi sconosciuti e lasciarci qualcosa. Non abbiamo, a caldo, capito che cosa. Però, tutto ciò, da l’idea di un certo conforto e calore. Con le tue parole sincere e la tua faccia da bugiardo ci lasci qualcosa questa sera, di cui faremo tesoro. Allora comincio. Ci stava un gatto, che conobbi una notte come questa, un gatto che potresti essere tu. Un gatto innamorato del suo padrone, e dal suo padrone ricambiato, che prese la strada d’una foresta, per scegliere un bel posto dove morire. Cercava rogne, ed una sfida decorosa entro cui soccombere. Ma forte del bene che lo animava, trovò conforto e spirò in pace.

-Buona notte amici.