Il ritorno del gatto giallo.

Originariamente pubblicato su www.terranullius.it

 

1.Potenza

Forme di vita che in natura condurrebbero vite solitarie, senza troppi stimoli endogeni all’aggregarsi in gruppo, poste davanti alla possibilità di essere nutrite, curate, e amate dall’uomo, ben accettano, o diciamo solo che accettano, di convivere con i loro simili. Un accettabile compromesso per poter fare una vita meno dura di quella a cui sarebbero costretti in natura. È più facile anche per noi uomini, del resto, andare a comprare al supermercato il macinato di vitello, piuttosto che armarci d’arco e frecce, scannare una vacca e prendere il necessario per la produzione d’un ragù casareccio.
Glisso sull’ipocrisia inerente le difficoltà di macellazione e conservazione d’un bovino intero, e soprattutto sull’incoerenza intrinseca alla questione refrigerazione/congelamento.

Il gatto alpha

Per comodità lo chiameremo Svelto, non solo per la sua furbizia, ma anche per quel viscidume, simile a quello del noto detersivo, che gli permette di sgusciare via dai guai e di volgere le situazioni a proprio vantaggio, come fosse un modesto judoka in grado di sfruttare peso e forza dell’avversario per avere ragione di esso.

In un certo senso un manovratore, sicuramente un narcisista pieno di fascino e assi nella manica. Scrutatore con occhi di falco.

Un Tabby, tigrato, a pelo lungo durante l’inverno, e medio-corto nel periodo estivo. È in grado di spogliarsi del pelo in eccesso, un utile adattamento che supera ampiamente il concetto di toelettatura fornita dall’uomo. In una storia ambientata nella mezza primavera il suo pelo sarebbe comunque ancora intonso. La colorazione del pelo, a causa delle numerose strie presenti soprattutto sul capo, ne enfatizza la mimica facciale, rendendola meta-comunicativamente efficace, al punto da permettermi di capire in ogni momento cosa abbia in mente. Malgrado la facile lettura del suo pensiero istantaneo, la bestia rimane impenetrabile, soprattutto a causa dei suoi rapidi cambiamenti d’umore e d’intenzione, specie quando si verifica una variazione entro lo spettro dell’ira.

Di carattere volubile, come già detto, sia per proprie spinte d’istinto, che per mero calcolo.
Dolce e propenso a baciare le femmine della sua specie, duro senza apparente ragione con gli altri maschi. Non per sola crudeltà, ma per imporre disciplina e rispetto dei ruoli: bullismo funzionale al mantenere la propria posizione verticistica. Chi è più cattivo mangia di più, diventa più grosso e mangerà sempre di più, rimanendo più grosso e continuando a comandare, fino a quando la vecchiaia non lo costringerà a passare il testimone, e anche in quel caso la posizione di dominanza gli avrà permesso di lasciare in eredità il suo territorio ai discendenti diretti.

Di notte, tuttavia, è solito cambiare carattere e mostrare il suo aspetto più dolce, affettuoso, coccolone, perlomeno per quanto riguarda il suo rapporto con gli uomini. Difficile stabilire dove finisca la sincerità del suo fare e dove cominci invece la necessità di sfuggire alla morsa del freddo e di infilarsi in una calda dimora domestica; insomma, il mero calcolo cui prima si è accennato.

Nei momenti in cui nel suo cervello scatta il germe della violenza, rizza il pelo e la testa, guardando tipicamente dall’alto verso il basso il proprio bersaglio. Non emette vocalizzi di guerra. Non sembra propriamente aver capito d’essere un gatto adulto, e riduce la “questione duello” alle medesime dinamiche delle lotte tra gattini, con la differenza che le sue zanne e i suoi artigli possono infliggere serie ferite.

Il gatto beta

Meno pesante di un buon mezzo chilo rispetto all’alpha. Detto Nerino a causa del suo mantello, che poi proprio nero non è, dato che col passare degli anni si è screziato sempre più di fulvo. Da piccolo era timoroso degli uomini e spietato con gli altri gattini. Sembrava avere la stoffa per soffiare a Svelto il posto di alpha. Poi una polmonite ne ha mitigato il carattere, attraverso settimane di tosse con rinculo, rendendolo estremamente propenso ad avere relazioni con gli uomini, forse per meccanismi legati a una sorta di gratitudine. Riconoscente, fedele e appiccicoso fino al punto di diventare addirittura fastidioso per via dei suoi vocalizzi e per l’abitudine di seguire i propri padroni a meno di un passo da essi, arrivando fino al punto di farsi calpestare. Basta sfiorarne il dorso per sentirlo abbandonarsi a rombanti fusa che mettono quasi in difficoltà emotiva rispetto alle aspettative che producono. Timoroso di farsi grattare la pancia, raramente si arrampica sulle gambe dei padroni. Ricava estremo piacere nello stare col proprio padrone, ma mantiene sempre una educata distanza rispetto al grado di intimità. Affettuoso con le femmine, ma spesso troppo poco deciso per dare loro il proprio contributo genico allo sfornare gattini. Se Svelto è nei pressi quando c’è possibilità di coiti, solitamente nel mese di febbraio, il povero Nerino non può fare altro che guardarlo incuriosito. Un voyeurismo da blocco emotivo.

Una volta l’ho visto che tentava di concludere, ma sembrava a dir poco maldestro, e non esattamente conscio della esatta meccanica dell’azione. Poi è arrivato Svelto e con una spallata l’ha ricondotto al suo ruolo, appropriandosi della gattina in questione. L’unica bestia a cui a sua volta rivolga della violenza è il povero Scappino, il gatto omega.

Il suo rapporto con Svelto negli anni è tuttavia cambiato. Se una volta infatti Nerino si limitava a fuggire ed essere colpito selvaggiamente su schiena e collo, col tempo ha sviluppato una propria tecnica di combattimento, nella quale si schiaccia al suolo come pozza di petrolio, e prova a catturare Svelto simulando una tagliola felina. Tale tecnica gli ha permesso in varie occasioni di respingere la furia dell’alpha.

Il gatto omega

Detto Scappino per la sua grande unica abilità: la fuga, dote tuttavia ancora perfettibile.

Gatto non propriamente domestico, è sempre scappato dagli uomini fin da piccolo, e a oggi, a ben due anni di distanza dalla nascita, continua a mantenere le distanze, dimostrando scarsa fiducia nelle persone e timore nei confronti degli altri maschi. Pur tuttavia le sue fughe non sembrano sempre di carattere emotivo, ma quasi ragionate. Non mi lascia mai avvicinare a più di un passo da lui, e così fa con tutti gli altri. Una volta afferrato però non compie mai un gesto di violenza. Si lascia accarezzare, anche se la cosa nella maggior parte delle volte non pare dargli troppo piacere.
Il suo mantello è di colore grigio ardesia e presenta pelo lungo; col passare degli anni si è gradualmente schiarito, e misteriosamente colorato anch’esso di sfumature fulve, come quello del beta.
Si tratta di una bestia che ogni volta va riaddomesticata. Malgrado ciò la sua educazione è grande, funzionale a ciò il suo ruolo di omega, appunto. Non di rado Svelto e Nerino lo attaccano, anche se è soprattutto Svelto a svolgere il ruolo di carnefice. Di solito è ben in grado di fuggire ed evitare i danni maggiori, ma spesse volte i denti degli altri due raggiungono la base della sua coda, che tende ad essere pelata e piena di ferite o cicatrici. Sul ruolo dei lupi omega, fior fior di scienziati ne hanno proposto interpretazioni positive, come se essi siano dei meccanismi per scaricare le tensioni all’interno del branco.

Misteriosa è l’interazione con gatti esterni al gruppo, dato che è difficile seguire queste bestie attraverso i vagabondaggi in giardini diversi dal mio. Sorprendente è il fatto che durante i pasti tra maschi non ci sia alcuna forma di violenza, probabilmente per l’eccesso di cibo. Al contrario le femmine, che non mi fermerò a descrivere per questioni di mero maschilismo, tendono, durante il pasto, a dimostrare un’aggressività che in altre condizioni non presentano.

2.Atto

Il cortile è molto ampio, lungo circa quaranta metri e largo cinque, pavimentato grezzamente di mattone rosso. Numerosi vasi sui lati. Le bestie, distese, prendono il sole. Se fossero rettili parleremmo di termoregolazione, ma dato che si tratta di mammiferi continueremo a dire che stanno solo prendendo il sole.

In un momento preciso Svelto comincia a guardarsi dapprima intorno, e poi a fissare Nerino, senza che quest’ultimo se ne renda conto. Assume la tipica andatura del diavolo scalatore di tetti, inarca la schiena, sgrana gli occhi, muove nervosamente la coda, e gli si stampa sul viso un’espressione che ricorda la gioia crudele di un bambino poco prima di fare a pezzi un giocattolo, un insetto, o un castello di sabbia altrui.

Nerino se ne accorge quando Svelto è a meno di un metro da lui. Si schiaccia sul pavimento, porta le orecchie all’indietro, soffia e mostra bene i denti, producendo poi quel tipico sottofondo di ringhio tipico di un gatto terrorizzato. Ostentare la propria paura non è la cosa giusta da fare con un alpha sadico come Svelto, che trae godimento e ludibrio dalla altrui paura. Svelto usa la sua psico-pressa, riassumibile in un guardare storto. Si realizza così la prima parte del duello, che nei casi di animali particolarmente saggi è anche l’unica. Un guardarsi intensamente, quasi una sfida della palpebra, ove si interpretano le altrui emozioni, se ne trae una valutazione, e nel caso, si passa all’azione. Una densità di sguardo pesante, eccessi di meridionalità. Mi astengo tuttavia dalla critica sociale e dalla propaganda territorialistica.

Io dalla comodità della mia sdraio provo a dare le giuste direttive a Nerino:

«Reagisci! Fagli il culo! È solo un pezzo di merda! Pesate quasi uguale! Non sta scritto da nessuna parte che debba essere lui il capo».

Belle parole, di quelle che evaporano all’istante come quando la notte un uomo perbene incontra un ipotetico rapinatore di scuro vestito. Il più cattivo è, almeno formalmente, il più pericoloso.

Nel momento stesso in cui Nerino prova la fuga, interrompendo il suo atteggiamento difensivo, Svelto gli salta addosso, mordendolo sulla schiena.

Scappino guarda dalla giusta distanza. Sa che prima o poi arriverà il suo turno.

Seguono per me numerose pause a base di caffè e latte di mandorla, passate a oziare, sperando che il cielo faccia piovere la giusta femmina ideale, sogno d’ogni fautore dell’immobilismo ortodosso. Una fede sufficientemente forte, dovrebbe, almeno in teoria, avere un effetto tangibile sulla realtà. Talvolta le gerarchie celesti e infernali marciano molto sul fraintendimento, e ciò può essere visto anche come una sorta di pregio, soprattutto entro i canonici vincoli d’interpretazione dell’arte. Tuttavia un desiderio espresso può anche essere solo una semplice preghiera e non per forza un qualcosa di suscettibile di interpretazione.

Svelto adesso è seduto su un tetto in lamiera, distante, sovrappensiero, incurante di quanto gli succeda intorno. Quest’altro invece, il nuovo arrivato, avanza verso di lui, con passo silente come la neve che cade. Un altro gattone, Giallo-rossiccio, un gatto che va per i cinque chili. Dal fisico intensamente muscoloso, dalla grossa testa, e dagli occhi verdi.

Svelto non lo riconosce, ma io sì. Un gatto proveniente da un lontano passato. Nel nostro presente dovrebbe essere stato da tempo cancellato. Colui che una volta da mia nonna veniva chiamato semplicemente il Gatto Giallo. Un gatto forse mio coetaneo, in termini di anno di nascita, che accompagna i miei primi ricordi di bambino. In casa si esprimeva contrarietà nei suoi confronti a causa del suo essere iracondo e scroccone, scroccone rispetto al cibo destinato alle nostre bestie di allora. Più di una volta però, ricordo di esserci entrato in sintonia, e di aver provato ad addestrarlo. Non di rado da bambino ero solito parlare ai gatti, che dal canto loro mi accerchiavano, si sedevano, e provavano ad ascoltare le cose che avevo loro da dire. Un cambio di registro nel nostro reciproco relazionarci si verificò la mattina in cui quel gatto, durante il mio quarto anno di scuole elementari, decise di uccidere la propria progenie per rimandare la nostra gatta in calore forzato.

Mia nonna mi aveva raccontato di essere riuscita ad infilarlo in un sacco di iuta, e di averlo tirato giù dal terrazzo dopo averlo sbattuto per bene. Il gatto ne uscì solo ferito, dinamico, con la bocca piena di sangue, pronto alla fuga. Una bella storiella, probabilmente romanzata, romanzatissima, mai realmente accaduta.

Immobile, guarda Svelto, paralizzato, pronto allo scatto, come a raccogliere dentro di sé e a concentrare all’interno degli occhi quel potere maligno accumulato in tanti anni di malefatte e parricidi (per chiarezza: questo termine viene qui usato nella sua accezione più ampia).

Un lieve miagolio, baritonale, come proveniente dall’interno delle sue viscere. Una lamentela d’attenzione, un avvertimento di sciagura.

Svelto sgrana gli occhi, capisce che c’è qualcosa che non va. Si volta e vede il gatto Giallo davanti a sé. Un avversario inaspettato, un lampo arancione a ciel sereno. Un punitore, una nemesi, un agente volto a ristabilire un certo ordine. Niente di ciò. Solo un gatto invasore.

Per la prima volta, vedo il nostro alpha di casa terrorizzato. Paralizzato a sua volta dal già paralizzato, che oltre ad essere paralizzato è anche paralizzatore. Una convergenza di ruoli, uno psicodramma felino, una indotta immedesimazione.

Quel gatto Giallo, da ora in poi chiamato Crono per la propria attitudine infanticida, esprime il proprio attacco psicologico di induzione del terrore. Un guardare storto, un penetrare l’avversario, un avere accesso alla propria gamma emotiva, un controllo mentale tarato solo su un sentimento: l’ansia più alta, l’angoscia.

Svelto però prova a reagire, assume lo stesso carattere difensivo proprio di Nerino. Si abbassa, si schiaccia, si prepara a un eventuale duello, pur conoscendone a priori l’esito, e proprio per ciò vorrebbe una maledetta via di fuga.

Crono, che di certo non vuole fare figuracce tipo quella di Annibale a Cuma, non temporeggia, gli si avventa addosso. I colpi sono diretti al capo, zampate fulminee. Svelto serra gli occhi, prova a difendersi, ma gli artigli di quello gli sfregiano muso e fronte. Realizzato che il dolore è vero e non illusorio, porge la schiena, accusa su di essa, e fugge. Scende dalla tettoia in malo modo, cadendo su un fianco. Un gatto scoordinato è uno scherzo della natura, anche se imbranato solo per un breve periodo. Raschiando il pavimento si allontana e fugge verso altri giardini.

Crono scende dalla tettoia, senza fare rumori neppure nell’atto dell’atterraggio. Nerino è in un angolo, tra due vasi, adocchiato il nemico innalza il pelo. Crono lo carica, e lo colpisce facendolo scappare tra le fronde di una cycas. Il gatto si punge e là si rifugia. Crono lo fissa ancora per qualche secondo. Nerino si dimena tra foglie spinose, ferendosi ulteriormente. Poi il Giallo si allontana.

Si guarda intorno e adocchia Scappino, seduto dentro un cestino su un tavolo del cortile. Scappino, per proprio temperamento capisce a botta l’andazzo, e rimane sulle sue. L’attitudine alla fuga l’ha reso specializzato in quel ruolo. Non valuta neppure la possibilità di duellare con un altro gatto. Sa sfruttare a pieno la propria abilità, converte la codardia in virtù adattativa. Come solevano dire vari saggi del diciottesimo secolo, non è il più forte, ma il più adatto che campa. Certo, poi bisogna vedere se sia in grado di riprodursi!

Se la sgasa senza pensarci un attimo, prima che il Giallo possa esercitare su di lui alcuna forma d’oppressione psichica. Scappino ha già la sua paura da tenere a bada, non ha necessità di ulteriori timori esogeni.

Il Giallo non contempla la rinuncia in seno al suo misterioso piano. Si lancia all’inseguimento. Scappino scavalca i due metri e passa del muro del pollaio con un unico balzo, supera una ulteriore tettoia, e fugge tra i muri divisori dei giardini confinanti col mio. Il maledetto Giallo lo insegue, pur senza competere in termini di velocità, e rischiando varie volte di cadere durante le rapide virate. Infine Scappino utilizza un albero di limone come trampolino di lancio per raggiungere un muro più distante. Il Giallo lo emula ma cade su un fico d’India, ferendosi a una zampa. Scappino continua la propria corsa verso l’orizzonte, verso lidi sconosciuti.

«Papà, in giardino c’era il gatto Giallo».

«Io non vedo da anni gatti gialli, da quando è morto… quello là. Come si chiamava? Quello morto di caldo in giardino, o forse avvelenato».

«Si chiamava Zagabria. Comunque non dico lui. Dico il gatto Giallo che veniva da noi quando ero piccolo. Quello che scannò i figli della gatta nostra, che poi erano figli suoi».

«Antonio, quel gatto è morto minimo da dieci anni. Probabilmente da una quindicina».

«Già. Quindi o è un gatto uguale a quello, cosa probabilissima, o si tratta di un fantasma».

«Mamma mia quante coglionate dici».

Il terrore di quello scontro mi lascia in qualche modo sconvolto. Un segnale di possibile vita oltre la morte, una possibilità di ritorno nel mondo dei vivi da parte di una bestia che non si è rassegnata alla propria permanenza all’inferno, che in qualche modo è riuscita a tornare sulla terra e che ora si vendica sugli abitanti di un posto dove ha lasciato il proprio bagaglio d’odio, quasi fosse un segnaposto al ristorante. A dire il vero, anche quella volta che è caduto dal terrazzo dentro un sacco, sarebbe dovuto morire. Non ricordo neppure se davvero ho assistito a quella scena o me la sono immaginata dopo che mi era stata raccontata. Il sunto della questione non cambia. Inoltre, come si suol dire, i gatti hanno sette vite. Nove nei paesi anglosassoni.

Svelto si lecca le ferite, nasconde la paura, ma non è difficile scorgerla in atteggiamenti indiretti. Benché di solito tenga la coda in costante movimento, come si conviene a un gatto alpha, specie prima di dimostrare aggressività, questa volta i movimenti dell’appendice sono scattosi, dimostrano chiaramente uno stato d’ansia e paura.

Passa la notte. Non esco. Bevo caffè e provo a scrivere una canzone su di un killer silenzioso che attraversa gli strati degli anni, e mentre mi escono i primi capelli bianchi, riappare in una mattinata altrimenti anonima, e porta il suo contributo d’entropia nella mia vita. Segnali di morte. Segnali di cambiamento imminente. Stupido ambasciatore della rottura di equilibri da tempo sedimentati. Un grande spazio nelle possibilità di interpretazione.

Mi addormento sul divano della cucina. Mi sveglia mia madre rimproverandomi. Dice che mi verrà il torcicollo. Aggiungo che sarò costretto a prendere così tanta tachipirina da pisciarmi i reni. Si stizzisce. Giustamente.

I canali televisivi della mattinata inviano chiari segnali di necessità di un colpo di stato nella nostra amata nazione. Paleso ai miei la mia opinione in merito. Non rispondono, come in genere accade quando dico qualcosa di relativamente strano e non allineato con la morale del luogo.

Lo spirito nietzscheano per essere accettato debitamente a queste latitudini va correttamente occultato. Anni e anni di catechismo mi hanno fornito tuttavia zavorra sufficiente ad evitare ogni mio balzo verso la trascendenza.

Svelto è un gatto ritenuto, nella mia famiglia, come un dio, ma ogni mio eventuale tentativo di emulazione comportamentale dello stesso verrebbe percepito come socialmente inaccettabile.

Dopo un paio di quarti d’ora, mio padre mi chiama, dice che il gatto si sta comportando in maniera strana.

«Non vuole mangiare e si allontana quando mi avvicino».

«Potrebbe essere per quello che è successo ieri. Il gatto Giallo gli ha fatto il culo».

Occhi vitrei, sbarrati, come se avesse ancora di fronte quel gatto Giallo. Bava alla bocca. Bava bavosa, colante, in grado di arricciare il pelo sotto tutta la gola. Il gatto ha provato ad asciugarsi la bocca sulla coda, bagnandosi come se fosse caduto in una pozzanghera atterrando sul fondoschiena. Midriasi perfetta, le sue pupille sono linee verticali. Mi avvicino e lui si allontana, scuote la testa, piagnucola, si muove in modo scoordinato.

Che l’induzione di terrore presenti questi effetti collaterali?

«Antonio, quello avvelenato l’hanno. Perché è maleducato. Piscia in tutti i giardini».

«Potrebbe essere. Oppure potrebbe avere mangiato un girino».

In una vasca da bagno nel giardino ci sono alcuni girini di rospo, in attesa di far metamorfosi e di invadere il mondo asciutto, come si conviene a bestie che passano dalle branchie ai polmoni.

Il calcolo che mi ero fatto quando ho deciso di portare i girini in casa voleva essere qualcosa del tipo: se un gatto dovesse malauguratamente mettere un girino in bocca, l’irritazione prodotta dalle secrezioni del girino medesimo sarebbe più che sufficiente a fungere da deterrente rispetto ad un inghiottimento dello stesso. La teoria è fallace se confrontata con l’atto empirico. Un istinto di predazione può ignorare i segnali provenienti dall’interno della propria bocca, anche se profondamente spiacevole.

Svelto passa il pomeriggio provando a scacciare insetti inesistenti. Qualcosa sicuramente gli sta girando nel cervello, qualcosa in termini di molecole in grado di produrre sintomi neurologici e psichiatrici.

L’agitazione è continua, e quando provo ad avvicinarmi per accarezzarlo si allontana nuovamente, come se avesse di fronte un rottweiler pronto a integrare nella propria dieta proteine di prima freschezza. Arriva fino al termine del giardino, e riparatosi dietro ad un muro di cinta sporge leggermente la testa per spiare.

A un ulteriore mio avvicinamento segue una sua terminale fuga.

Raccontato l’accaduto i miei, mi fanno presente che ci sono altre questioni più importanti, rispetto a un eventuale ricovero psichiatrico del gatto. D’altro canto, ancora poco si conosce nell’ambito della psichiatria d’interesse veterinario.

Nottetempo vado a dare del polpo lesso al gatto. Lo trovo sulla tettoia del pollaio, rannicchiato. Prova a mangiare il polpo, ma ha difficoltà a masticare e deglutire, e lo sputa. Mettendogli una mano addosso lo sento piuttosto caldo. Provando a sporgermi per recuperarlo, finisco con l’essere morso e graffiato. Mi accoglie in una tiepida e debole morsa, ma non riesce a ferirmi più in là di una escoriazione lieve. Capisco che le forze lo stanno abbandonando, e con esse la voglia di stare al mondo. Riesco comunque a prenderlo in braccio e a portarlo nel locale in cui gli altri gatti dormono. Lo posizione in una cassetta di plastica, ma lui non sembra volerci stare. Per esprimere il suo dissenso, o forse solo per paura, si piscia addosso. Lo sgrido, ma pare non rendersi conto della cosa. Provo ad avvicinargli Nerino, come a fornirgli un amico che possa fungere da supporto. Malgrado il suo essere malandato, Svelto lo morde ugualmente sulla testa. Nerino scappa.

Dopo questo ennesimo gesto di insubordinazione e maleducazione decido di andare a dormire. Il gatto sta sicuramente male e presenta numerosi sintomi strambi, ma sono certo del fatto che non basti un girino o gli effetti collaterali di una psico-pressa a uccidere un gatto alpha. Tuttavia, onde evitare che una macchina lo investa durante una camminata allucinata, lo chiudo nella rimessa insieme agli altri gatti. Mi sento di escludere un avvelenamento, sia per il fatto che il gatto non sia già morto, sia per la grande dose di ottimismo e di capacità di autoinganno che mi hanno sempre contraddistinto nel mondo delle religioni pagane.

Al successivo risveglio, questa volta in camera mia, sento mio padre urlare dal giardino.

Arrivato in cucina mia madre mi dice:

«Antonio, Svelto sta dando i numeri. Si è graffiato col Nero, e papà li ha dovuti dividere con la scopa. E comunque non si voleva togliere di mezzo».

«Ieri sera sarei stato quasi sul punto di scommettere quindici euro sul fatto che sarebbe trapassato, e invece, vedi, la natura ti sorprende sempre».

Svelto nel cortile cammina a passo fiero e col pelo ritto.

«Papà il gatto ha mangiato?»

«Sì, sì, ma è strano. Sta dando botte a tutti gli altri gatti».

Bevo il caffè in giardino riflettendo su quello che possa essere successo. Le tossine in parte eliminate continuano forse a svolgere un effetto, ma in quantità minore forniscono una risultante diversa. Una sorta di mania. Un delirio di onnipotenza. Hanno cancellato dal gatto qualsiasi sentimento di paura. Il gatto ha usato una sostanza esterna per raggiungere uno stadio di semitrascendenza rispetto alle regole vigenti nel mondo dei gatti. Regole di base votate alla sopravvivenza, ma che se ribaltate da un avversario abbastanza potente, diventano spine nel fianco, paura supportante l’avversario.

Prova a caricare Scappino, ritornato dopo un giorno e mezzo di latitanza. Scappino ricorre alla solita strategia.

Provo ad avvicinarmi a Svelto, e lui mi guarda come se non ci fossi. Arrivato a mezzo metro da lui mi dribbla e scala il muro del bagno esterno. Con pochi passi supera la vite, tesa tra la rimessa e il bagno esterno.

Raggiunge il tetto della rimessa. Là in cima c’è di nuovo il Gatto Giallo, guarito dalle ferite riportate e venuto a terminare la questione rimasta in sospeso. Salgo sul terrazzo di casa mia per vedere la scena.

Il Gatto Giallo ci riprova con la sua tecnica di induzione del terrore. Immobile e penetrante. Svelto però questa volta si comporta in maniera diversa. Senza nessuna paura da amplificare all’interno della sua gamma emotiva, tiene eretto il pelo e dritta la gobba sulla sua schiena. Miagola, sinuoso, come a sottintendere che nell’arco di qualche secondo avrà un po’ di divertimento, servito come contorno di una meritata vendetta.

L’alpha di casa attacca per primo, il gatto Giallo si proietta in avanti per contrastare l’assalto. Svelto lo atterra, affondando i propri denti nella guancia dell’avversario. Entrambi scalciano nel ventre dell’altro, graffiandosi, mentre usano le zampe anteriori per aggrapparsi e immobilizzare il reciproco rivale. Uno scambio di qualche secondo, e poi il Giallo si libera dalla presa e si poggia sul rivellino del muro della rimessa, cercando di capire quanto valga la pena continuare coi suoi propositi. Svelto si lecca il sangue dalla faccia, il proprio e quello altrui, e gli si avventa addosso. Cadono entrambi dal tetto, ma il Giallo cade di schiena, e Svelto non accusa alcunché trovandosi su di esso.

«Svelto ce l’hai fatta!»

Urlo.

Ma Svelto non si placa, continua a mordere, prima sulla guancia e poi sul collo. Affonda i propri denti fino a quando il sangue non esce fuori da quella pelle umida di bava. Continua a mordere anche quando la sua di faccia è piena di sangue, e prima che il nemico sconfitto esali l’ultimo respiro, comincia a mangiarne la carne.

Sia io che io il cane guardiamo sbigottiti Svelto, il quale da canto suo, emettendo un frammisto tra fusa e lamentele, si ciba del gatto Giallo.

«Papà, papà!»

«Ehi, che c’è?»

«Il gatto è uscito di testa»

«Si, ho visto già prima»

«No, no. Esci in giardino e vedi che sta succedendo».